Perché se penso a un colore per l’infinito viaggiare dell’uomo, non può che essere l’azzurro
(dal romanzo “Piccoli silenzi desiderabili”, 2014)
C’è una comunicazione molto più sottile, immediata, istintiva e intuitiva.
Si basa sul riconoscersi a pelle, entrare in empatia, sentire e percepire in modo differente, lasciando a margine del foglio su cui scriveremmo “io” tutto quello che ci riguarda, scrivendo soltanto “tu, noi” nel testo.
C’è una comunicazione che è fatta di sguardi che si incrociano e si riconoscono tra numerosi volti.
Un gesto avvicina o respinge, una parola ha una vibrazione molto più potente del suo significato, uno sciocco schiocco di dita scombussola un ordine preciso. Un mondo di vetro può andare in frantumi per un’eco muta.
La sensibilità sa farsi telepatia e riconoscere molti più colori di quelli che si possono percepire, o smascherare l’ipocrisia, eppure non lo sa dire.
Il disagio di un momento è lo specchio dell’interlocutore non limpido, l’ipersensibilità smette di essere un concetto astratto e la scopri in tutta la sua evidenza, con la sua irruenza.
Una montagna scuote terremoti per uno spillo caduto, apparentemente.
Una risata troppo forte spaventa come urla di terrore, alle volte.
Oppure ci sono sguardi sfuggenti, o assenti ma esistenti – siamo solo noi incapaci di percepirli – che sanno acchiappare la realtà nei minimi dettagli. Alcune volte, quegli sguardi si posano davvero nei nostri occhi.
Se abbiamo la leggerezza di una piuma, una bolla si rompe senza che sia un errore: accade il miracolo di poter accedere a universi sorprendenti.
Un istante, uno sguardo, un contatto, un universo.
Non bisogna forzare, solo rispettare, farsi piuma: seguire la corrente, posarsi lieve, attendere il palmo di quella mano tesa che crediamo invece distratta.
Solo rispettare.
Tante volte ho incrociato sguardi meravigliosi.
Alcuni sguardi soprattutto mi sono rimasti impressi.
Mai una parola rifinita, sempre parole morsicate. No, non risicate: morsicate. Allora anche io parlavo poco, mi sforzavo di comprendere di più quella lingua incompleta ma non impossibile.
Quegli sguardi, li ricordo ancora oggi: sono stati accompagnati da sorrisi che si spalancavano assieme alle braccia, che prendevano il volo su piccoli passi in corsa verso di me. Allora io spalancavo le mie braccia pure, mi accovacciavo sulle ginocchia e aspettavo che quel volo atterrasse lì, nello spazio privilegiato che riguardava solo quel “tu, noi”.
“Come fai? Nemmeno gli parli e ottieni che si scioglie per te”, mi chiedeva ironico e serio un collega. Era un alunno non “mio”, lo vedevo poco, ma era bellissimo incrociarci tra i corridoi e i pochi momenti condivisi. Un paio di volte ci son state difficoltà, così venivano a chiamarmi, perché lo guardassi e lui si calmasse; quelle volte bastava interagire un po’, fare un gioco semplice, come toccare la punta dei propri indici per stabilire un contatto extraterrestre. Oppure capitava che non si riuscisse a fargli fare qualcosa, un compito nuovo, con un metodo tirato fuori da un cilindro, e anche allora venivano a cercarmi: “Vedi se capisci tu come farglielo fare“. Anche in quelle occasioni bastavano uno sguardo, una carezza morbida, come di zucchero filato, e iniziavamo a lavorare.
Quelle volte tornavo bambina anche io: mi sedevo sul pavimento, di fianco quel suo corpicino piccino, e spostavamo elementi come fossero un puzzle, creavamo un codice nostro e condivisibile, un accordo, un patto in cui anche gli altri potessero insinuarsi.
“Come fai?” – mi chiedevano puntualmente quando io tornavo adulta, in piedi, e sorridevo per tornare al mio posto.
Come facevo? Non è magia, quindi non è detto che funzioni sempre. Qui non ci sono regole magiche. La formula soltanto è sempre immutata: il vero limite è dentro ognuno di noi, se restiamo àncorati a chi siamo e a quello che sappiamo, se pensiamo che i manuali davvero servano con le persone.
Le persone. Che non sono la diagnosi.
Come faccio?
Fate così: immaginate che la vita non sia solo quella che conoscete, provate a sentire senza orecchie, ad ascoltare la vibrazione di una parola, il colore della voce; provate a vedere a occhi chiusi anche se li avete aperti, a pensare più dimensioni che convivono contemporaneamente e beate; immaginate tutto quello che per voi è piacevole e trovatene gli elementi pericolosi.
Inventate mondi diversi e poi cercateli fuori. Li troverete senz’altro, ma solo se sarete ben disposti.
L’altro è apertura all’infinito, diceva Lévinas.
L’autismo è un’infinità di mondi differenti. Come ogni nuova scoperta, richiede coraggio e pazienza.
Luana Lamparelli
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