A un anno di distanza dalla mail assurda con sequel da pazzi che ne è nato – vi lascio il link sotto se vi siete persi lo show -, ieri sera Eva è tornata a sorprenderci con una mail di invito. Altro giro, altra corsa, verrebbe da dire, citando il suo motto preferito per un determinato campo e spesso adattato ad altri settori, sempre ludici e ricreativi. Altro giro, altra corsa: altra réunion a distanza.
Questa volta, però, è riservata a una élite altamente selezionata: le “Vandale al sole”. Chi sono? – vi starete chiedendo. Siamo noi, ma ve lo spiego un’altra volta noi chi. Posso solo dirvi che “Vandale al sole” è il nome della nostra chat whatsapp.
La mail è arrivata con un oggetto bizzarro: “Baci diabete a mille”.
Era come se un giorno tutte le cose del mondo si fossero ammutinate.”
Se fosse una canzone: un’aria,
L’Italiana in Algeri, di Rossini
Se fosse un colore: rosso
ESTERNO SETTEMBRE – ATTO PRIMO
– Dov’è che dobbiamo andare?
– Prova di là.
– Ma la barca dov’è?
– Dobbiamo arenarci su una
banchina.
– Speriamo ci diano anche una
panchina, allora; coi tacchi, in piedi non voglio starci.
Dovevamo parlare di un libro strano, di un autore introvabile, invece siamo finiti alla presentazione di un altro titolo e di un altro nome. Il mare sullo sfondo, negli occhi.
INTERNO DICEMBRE – ATTO SECONDO
– Perché non in auto, sotto gli
occhi di tutti? Abbiamo pure le mascherine.
– Guarda lì, accosta, e fregatene
se suonano il clacson. È Bari. Andiamo nel mio ufficio.
Sportelli che sbattono, freddo di
colpo addosso, passi: di lui più lunghi, di lei più frequenti; entrambi, gambe
lunghe e penne abili.
Ironia e poesia, cose
scordate e cose riconosciute in guizzi
di sguardi.
La soglia di un palazzo antico e importante varcata. Gli
sguardi si allungano come fossero d’Acqua. Mi metto in posa per la misurazione
della temperatura (a debita distanza persino dal macchinario, ndr) e poi su: gradini di marmo e rampe a
far girare la testa per la bellezza tutt’intorno, prendi questo corridoio,
supera quell’angolo, svolta a destra, imbocca la porta a sinistra, seguimi, non
ti perdere.
– Poggio la mia roba qui, sullo
sgabello del Papa.
– Hai già avviato la
registrazione?
– Certo. Quando ho detto che
saremmo durati dieci minuti, io e te.
La verità, però, è che se si parla di un libro e di uno scrittore in particolare, “dieci minuti” è un luogo immaginario non fedele alla dimensione temporale.
RACCONTO DI SASSI E DI ALTRE PIETRE
PREZIOSE
C’è un libro come un’opera
teatrale. Overture, Atto I, Intervallo, Atto II – le sue stanze.
Porta, rivela e daccapo cela un
mistero.
Ho cercato lo scrittore, Carlo
Falcoli: nome semplice ma introvabile persino su Internet, persino per me. Alla
fine è venuto fuori un suo amico di liceo, disposto a parlarmi di lui e di
questa strana opera, edita da Adda. Ho avuto risposte come capriole e altre
riflessive, un gioco di specchi, non solo di rimandi; ho cercato di far evitare
voli pindarici (perché sappiamo bene quale fine abbia fatto Pindaro); sinfonia,
fantasie di pioggia e arcobaleni.
Che la comunicazione, a livello
istituzionale, non fosse curata bene, l’avevamo già capito a Maggio, con i dpcm
che parlavano di “congiunti”, questi sconosciuti (e non solo giuridicamente
parlando).
Da qualche settimana, la
sconosciuta perfetta del nostro Governo è la Cultura, questo sostantivo
femminile, singolare ma infinitamente plurale, a cui dò la lettera maiuscola.
Cultura: parola bellissima dal
punto di vista socio-antropologico: definisce un popolo, in diversi momenti
storici e nelle sue tappe evolutive, tanto da farlo divenire il popolo.
Cultura: tre sillabe, portata
esponenziale di significato che tenderebbe ad arricchirsi all’infinito, senza
limiti, integralmente; premessa e risultato nuovo di processi di inculturazione
e acculturazione, con ricadute su piani formali e informali, in un circolo
virtuoso.
Cultura: unità di misura di
astrazioni perfette: arte, musica, pittura, scultura, letteratura,
architettura; precisione sentimentale di teatro, cinema, danza; non trascura
sport, gara e competizione, passione. Punta i riflettori su regia, movimento,
sguardo, erigendo cattedrali di pensiero senza confini, facendosi respiro ampio,
sguardo lungo.
Non si esaurisce il suo
significato, solo si fa più vasto.
Quante culture esistono?
Non solo in positivo: abbiamo
anche la cultura della devianza, per citare uno solo dei macrocapitoli con
ricadute pericolose a livello sociologico e psicologico.
Cultura, che è anche ricerca,
esperienza polisensoriale, empatia, intelligenza, intuito, creatività,
sinergia, contaminazione positiva e propositiva, sapere, rivelazione.
Rivelazione, che suono
meraviglioso.
Pensare che tutto nasce da una
sola genitrice: Cultura, che è madre di Conoscenza e Consapevolezza (anche loro
meritano la maiuscola).
E dove ci accompagna la
Cultura, da quali banchi inizia a mostrarsi e manifestarsi, con discrezione,
agli occhi di tutti, senza discriminazione negli intenti normativi? Dalla
scuola.
Abbiamo visto la scuola diventare
territorio fertile di integrazione sociale per tanti portatori di handicap a
lungo emarginati nelle “scuole speciali”, diventare serra preziosa per far
capire agli studenti che studiare è appassionarsi attraverso opere d’arte,
pellicole cinematografiche, opere letterarie; abbiamo visto la scuola mostrare
loro come ogni contenuto di una singola disciplina approdi poi in altro: la
letteratura è il convoglio di materie e movimenti bellissimi della ricerca
umana di senso e significato; ogni biografia è pedagogia; la matematica è più
vicina alla poesia di quanto non si creda, basta solo trovare le metafore
giuste e conoscere i linguaggi apparentemente distanti ed estranei. E se non
vogliono capire, gli studenti, non bisogna smettere di mostrare loro, indicare
altri orizzonti anche mentre guardano altrove con la propria mente, per senso
di responsabilità e civiltà, non solo di dovere. Credere in qualcosa di buono e
bello, sempre, ma restando coi piedi per terra, spalle larghe, schiena dritta,
testa sul collo, credere ed essere mossi dall’estetica del pensiero e
dell’azione, dell’intenzione: questo dovremmo insegnare sempre.
Adesso, però. Tutto è filtrato
da un display a larghezza e pollici variabili, gli sguardi cadono nel vuoto,
privati della corrispondenza che meritano o che cercano. Si ha bisogno di così
tanti istanti persi.
Le lezioni a distanza, i musei
in video, le emozioni da remoto, ognuno nello spazio sconfinato del proprio io
racchiuso, solitario, nello spazio ristretto di scatole perfette: le camere
racchiuse nelle case contenute nei palazzi disposti in fila o a casaccio sulle
strade allineate. L’urbanistica soltanto, tante volte, proprio non sa sembrare né
arte né cultura.
Nelle scuole sono state portate
avanti battaglie di sensibilizzazione contro tutto quello che è deplorevole,
per educare al “bello”.
La Cultura italiana, tra i
banchi e le cattedre, segue linee guida ben definite per acquisire le
competenze necessarie alla cittadinanza europea, e tutto passa attraverso la
scuola, proprio come i cittadini di domani, gli italiani che domani voteranno e
opereranno politicamente.
Tutto questo dov’è ora?
Cultura e scuola sono dilatate
in uno spazio tempo dove gli unici fattori che avvicinano, la luce e il suono,
viaggiano a velocità differenti: perdersi è un attimo, talvolta per sempre.
Dove sono finite le competenze
del nostro governo, a cosa pensa quando decide di chiudere tutto ciò che porta
cultura, ossia ricchezza dal punto di vista di crescita personale e collettiva?
Le sale vuote dei teatri, le platee
spoglie, i velluti lasciati a
impolverarsi così come gli schermi dei cinema e le loro fessure strette, quelle
tramite cui la magia della luce comporrà emozioni e speranze. Le sedie delle
librerie e delle biblioteche restano fredde, come le mani che reggono i libri
in spazi privati, senza il confronto di voci, sguardi, sorrisi e storie.
I corridoi degli edifici
scolastici, le palestre e gli auditorium, le aule, i laboratori: ogni spazio è
permeato dall’assenza. Il futuro è scardinato.
S’è fermata la macchina
meravigliosa che porta in scena la fantasia, l’immaginazione, il genio,
l’estro.
Il sentimento resta sospeso
come per tutte quelle relazioni che vivono i confini geografici al pari del
filo spinato.
L’arte e la cultura sono
rimandate a data da destinarsi, come gli sguardi prossimi degli amanti
distanti, o dei cari che congiunti non sono, perché sono molto di più.
Si sta congelando la storia del
popolo.
Siamo puntini che occupano
un’area geografica.
Sono un puntino che occupa uno
spazio preciso, tracciando itinerari fedeli a sé stessi: il supermercato, il
fruttivendolo, il giro del paese, le strade che offre. Un topolino nella ruota.
Ho perso il conto delle
giornate chiusa in casa.
Col primo lockdown ho ripreso a
scrivere e a recuperare ricordi. Ho rimesso mano a scatoloni, fotografie,
nastri video, monografie di fotografi e pittori. Ho ripreso a sfogliare libri
che mi hanno accompagnata da una casa all’altra e ogni libro s’è fatto viaggio.
Ho guardato attentamente il silenzio del paese, che era uguale a tanti altri
giorni, se non fosse stato per
l’insofferenza di chi non è abituato allo stare isolato e rinchiuso, per
la disperazione di chi un incubo così non se lo poteva permettere. È la
condizione interiore a determinare la percezione di quanto accade intorno, il
paesaggio muta solo di stagione in stagione.
Speravamo con l’estate di poter
fare le cicale, quand’invece dovevamo essere formiche.
Così ci siamo ricascati; come
la prima volta, impreparati.
Come gli studenti che sanno di
esser chiamati all’interrogazione, il giorno dopo, eppure non studiano
volutamente.
Con questo secondo confinamento
ho voluto ritrovare un libro. In quarta di copertina riporta il prezzo: quattro
mila lire. In copertina c’è scritto “Ibsen, Casa di bambola”. È un dramma
teatrale.
Se
tutto si è fermato perché bloccato, in questo periodo storico, alcune
riflessioni no: attraversano lo Stivale. Paradossalmente, sono riflessioni su
immagini cristallizzate, stereotipi e pregiudizi che adesso finalmente ci
diciamo sia necessario scardinare e smantellare. C’è evoluzione, nonostante
tutto.
Allora
ho riflettuto e sono arrivata a una conclusione, passando per un paragone.
La
protagonista dell’opera di Ibsen si chiama Nora.
Nora,
sulla scena teatrale e letteraria, è una “donna invisibile”, priva di identità
e coscienza di sé. Vive soltanto della volontà decisa dal marito, impostagli da
qualcuno che non è lei. È figlia del patriarcato maschilista. Nora sembra quasi
non conoscersi, fino a un determinato momento: fino a quando decide di essere
artefice e protagonista del proprio gioco, di sfidarsi e finalmente scoprirsi.
Con un cambio d’abito magistrale, Nora saluta il marito; lasciandolo
nell’atrocità dell’incognito, il sipario si chiude.
Dovremmo
essere sempre grati a Ibsen per averci raccontato bene chi sia stata Nora e, al
tempo stesso, per non averci mai raccontato chi sia diventata dopo essere stata
per troppo tempo quella Nora.
Contestualizzando
l’opera in una prospettiva più ampia, più attuale, l’opera teatrale di Ibsen
non parla solo alle donne: parla a chiunque indossi un abito senza spogliarsi
della paura di scoprire chi sia davvero, o senza vestirsi della giusta
curiosità e del giusto coraggio per affrontare la sfida del sé, imporre la
propria voce che pare stonata invece è miracolosamente
fuori dal coro. I solisti non hanno forse la voce più bella?
Nora esce di
scena per scoprire la donna che è al di là del ruolo che la società borghese ha
deciso per lei: per (ri)appropriarsi di tutto quello che negli schemini, nelle
caselline, nelle spunte verdi non rientra, o non è previsto. Paradossalmente,
lo fa dicendo al marito: “A tal punto che la nostra unione divenga un vero
matrimonio”. Suo marito chiuderà il dramma con l’espressione emblematica:
“È andata via. Il più grande dei miracoli?”.
Alle volte
‘andare via’ può semplicemente significare un viaggio interiore, o una catarsi,
o un ricordare dettagli persi che restituiscono il passato e salvano. Oppure
proiettarsi nel futuro e scoprire di rischiare di soffocare. Allora, scappare.
Sono tempi
bui per parlare di cambiamento, coraggio, ricerca della propria identità al di
là del già noto e già dato. Viviamo tempi di paure e costrizioni, di
impedimenti e malcontenti.
Forse anche
la nostra società ha bisogno di diventare Nora.
Di opporsi, di ribellarsi, di
costringere a una revisione dei ruoli, a livello politico, anche chi è troppo
distante dalla vera realtà; di tornare a riappropriarsi con i giusti modi, col
dialogo e con la logica, la ricerca e la determinazione; di continuare a essere
responsabili, semmai più di prima, e tornare a essere liberi. Che significa
essere unici. Alla faccia degli
influencer (anche politici).
Una cosa non potranno mai impedirci
di fare: esercitare la nostra curiosità, la nostra creatività interiore. La
ricerca non vive soltanto negli spazi preposti.
La Cultura può insegnarci tutto ciò
che è bellezza, e bellezza fa rima con libertà.
È un discorso per appunti quello che
voglio fare.
So che nasce dalla volontà, come
sempre, di condividere e mettere in circolo.
L’articolo, a discrezione dell’autrice, può essere pubblicato anche su altre riviste di informazione e settore.
DISCORSO PER APPUNTI – La rubrica
Il paradigma della
complessità contraddistingue la nostra società, insieme alla omologazione. Un
paradosso.
La condizione attuale
legata all’emergenza del Covid-19 ha determinato un arresto voluto di tutto ciò
che riguarda la cultura: dai musei, ai cinema, ai corsi specifici, ai teatri,
tutto è chiuso, persino la scuola, l’istituzione deputata alla formazione dei
cittadini di domani.
Un arresto che poteva
essere evitato.
In questo momento
storico, però, molti artisti e molte personalità del mondo della cultura, dell’arte
e dello spettacolo stanno continuando il loro lavoro di ricerca e costruzione
di significato. Creare la rete autentica, la sinergia che porti a galla queste
realtà, che faccia conoscere e quindi incoraggi a non arrendersi è l’obiettivo
più alto che mi propongo, umilmente, oltre a offrire spunti di riflessione.
Nessuna verità data, soltanto un discorso che non può esaurirsi mai, dove a
completarlo e condurlo altrove sia il pensiero critico e analitico del lettore,
o la sua fantasia, attraverso interviste, recensioni, approfondimenti di volta
in volta proposti.
“Complesso” non
significa “complicato”: significa “tenuto insieme da più elementi, composto da
molteplicità di parti”. Allora il paradigma della complessità forse può essere
trasformato in risorsa, in sfida.
L.L.
Puoi ascoltare l’articolo sul canale Spreaker di Circo Lamparelli, letto dalla voce della stessa autrice, cliccando qui: “Cultura: questa sconosciuta”
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Era il 17 Luglio 2019, poco più di un anno fa, quando lo scrittore Andrea Camilleri ci ha lasciati.
Ci ha
lasciati l’uomo, ci ha lasciati lo scrittore. Soprattutto, ci ha lasciati la
sua grande mente capace di respirare sempre e non essere accecata mai.
La sua vita
ha tanto da insegnarci, la tenacia e il coraggio soprattutto, insieme al non
arrendersi, anzi: insieme all’arrabbiarsi e mescolare quella rabbia alla
propria passione. Forse nasce così la determinazione, quella che segna
l’obiettivo e manda tutti al diavolo.
Chissà come
si sono sentiti i primi dieci editori che hanno scartato il suo primo romanzo, Il
corso delle cose, quando hanno visto letteralmente volare Camilleri sulle
loro teste, anni dopo e lavori acclamati dal pubblico su ogni fronte. “È
il corso delle cose” direbbe forse oggi con la sua ironia, anche in
merito alla sua scomparsa, lui che era felice di vivere e non temeva la morte.
Il suo primo
romanzo nasceva per una promessa fatta a suo padre: quella di scrivere la
storia che Andrea aveva inventato per lui accudendolo in ospedale prima che
morisse. Fu proprio suo padre a dirgli di scriverla così come l’aveva
raccontata a lui, con quelle espressioni dialettali che colorivano e
intensificavano la narrazione, la rendevano più vera, più verista. Una
storia, quella narrata nel primo romanzo, nata parallelamente alla vita reale.
La vita di uno scrittore è così: procede in parallelo su due, tre o più binari,
portandolo in diverse dimensioni, e non sempre quella sua privata e personale
viaggia sugli stessi stati d’animo narrati. I personaggi hanno una vita
propria, a un certo punto, e lo scrittore, volente o nolente – devi seguirli,
assecondarli, stargli dietro. Non si può fare altrimenti. Così come lo stesso
Camilleri racconta ne I racconti di Nenè:
Fin quando un personaggio non è in grado di alzarsi dalla pagina e cominciare a camminarmi per la stanza, quel personaggio, secondo me, ancora non è risolto”.
(da Andrea Camilleri, I racconti di Nenè, raccolti da Francesco Anzalone e Giorgio Santelli, Feltrinelli)
Il testo che segue risale al 2011. All’epoca è stato pubblicato su molte riviste cartacee a diffusione nazionale. Lo riporto oggi qui, per un motivo particolare e una persona eccezionale. Nel Dietro le quinte, in fondo al brano, tutti i dettagli.
Ho cinque anni. Forse ne ho già compiuti sei. Non ricordo. Potrei perfezionare questo ricordo. Chernobyl, come semplicemente chiamiamo quel disastro, è stato nell’85 o nell’86? Basterebbe poco per perfezionare il ricordo. Poco quanto un click. Ma non lo farò. Che importanza ha una data, un insieme di numeri che comunque non cambierà il corso della storia? Chernobyl è stato. È accaduto. Numero più, numero meno. Frequento l’ultimo anno di asilo. Ci impediscono di giocare in giardino. “È pericoloso!”, dicono. E ci rido su. L’aria che respiriamo è la stessa, che ci troviamo su un prato o al centro di una strada. Ci hanno impedito, ma io già voglio scoprire il perché dei divieti. Così, mentre mamme e maestre parlano, io e la mia migliore amica d’asilo sfidiamo quel divieto. Forse anche la sorte. Sgattaioliamo fuori, facciamo il perimetro del giardino trattenendo il fiato. Senza respirare! Per vedere chi ce la fa di più.
Ho dieci anni. Ho il sussidiario. Lo sfoglio. Mi blocco.
Ieri, guardando il Tg1, un servizio ha richiamato totalmente la mia attenzione. In particolare, la voce e il volto di un uomo, l’importanza di quello che stava condividendo e l’immenso potenziale di quanto dichiarava.
Parlava, fondamentalmente, di sé, di una sua idea che è opportunità e incoraggiamento per gli altri.
Subito dopo il servizio, ho svolto la mia ricerca sul web, approdando al sito di cui avevo sentito parlare.
www.portaledellarinascita.it
Il sito, voluto e creato dall’imprenditore Michele Porta per sostenere tutti i suoi colleghi (e non solo), offre consigli pratici di marketing, attuabilissimi da chiunque abbia buona volontà e conoscenze basilari di gestione pagine social e blog; mette a disposizione degli utenti che lo visitano anche informazioni utili per accedere a risorse economiche, notizie sul mondo finanziario, con sguardo attento a tutte le categorie di professionisti e a tutti i ruoli sociali (le mamme e i papà, per esempio).
Il confinamento nazionale e la chiusura fisica delle attività commerciali e lavorative hanno ben evidenziato quanto il mercato moderno sia nettamente cambiato. Per le aziende e le attività, per i liberi professionisti soprattutto, mai come ora, il dictat è “essere online, essere presenti nel web”, perché altrimenti non si esiste.
I grandi colossi del web, da Amazon in poi, possono essere sconfitti, se lo vogliamo, ma dobbiamo essere tutti dalla stessa parte: comprare online ma dai nuovi bottegai del web, come li definisco io. Nella bottega sotto casa, dove mi reco per la consueta spesa, io sorrido, rido, faccio chiacchiera, mi confronto sulle notizie e sulla musica (il proprietario del negozio di alimentari è un cultore della musica buona ed è di una simpatia unica, mi diverto un sacco; sua moglie pure è fenomenale): ritrovo il valore umano, la bellezza degli sguardi, del sentirsi tra amici.
Non esiste cristallo senza difetto: a insegnarlo, la chimica della materia, e pure la fisica.
La scelta del titolo dei racconti d’esordio di Concetta Tandoi, Difetti cristallini, non è casuale: le donne che li abitano hanno difetti imprecisabili come solo alcune metafore di vita sanno essere, appaiono a tratti così impenetrabili da poter essere definiti, paradossalmente, perfetti.
Un fotografo: uno sguardo sul mondo come una carezza e una saetta al tempo stesso, il guizzo della mente che coglie l’insolito dell’ordinario e lo declina velocemente, tra linee invisibili e prospettive.
Un fotografo: un occhio strizzato dietro l’obiettivo, un po’ come l’occhio dell’orologiaio strizzato nella piccola lente d’ingrandimento, per riparare i meccanismi di microcosmi millimetrici.
Entrambi guardano il tempo come nessun altro: il primo per fermarlo, il secondo per dargli vita oltre gli inceppi della Vita.
La villa a Cervo era appartenuta ai trisavoli di Eva.
Abbandonata da decenni, un bel giorno
aveva chiesto a suo padre se potesse sistemarla. Aveva un’idea precisa:
ristrutturarla, arredarla, riempirla di fiori e piante, farne la sua
roccaforte.
Nessuno l’avrebbe mai reclamata: né i
suoi genitori, né i suoi fratelli, per cui tanto valeva applicare anche a quell’immobile
il suo motto: dare valore a quello che si ha.
– Dimmi, stai annusando anche tu
una rosa inglese come me, in questo momento?
Che lui scoprisse dove fosse, l’aveva previsto. Quello che Eva non poteva immaginare era che lui la prendesse in contropiede in quella maniera, irrompendo nella sua quiete con un’immagine così forte e sensuale.
Ettore, sempre lui.
Lei immagina la scena dall’altra
parte della cornetta, sospira, esita un attimo.