ASTEROIDE CENTOCINQUANTADUE

Pensare al futuro, oggi. Vivere seminando per il futuro, oggi.

Abbiamo domande, paure, distanze da colmare e attese dilatate. Tutto scorre in un tempo impreciso, più che imperfetto.

Ho scritto “Asteroide Centocinquantadue” nel 2017, per un’opera collettiva sul tema del “futuro” mai pubblicata. In questi giorni difficili ho deciso di regalarlo pubblicandolo qui per la prima volta.

Ho preso questa decisione confrontandomi con l’art director Alessandro Pession. La fotografia che accompagna questo racconto è sua, scattata appositamente in questi giorni.

Questi giorni che sono di vicinanze sentite e distanze spazio-temporali: in questo siamo tutti uguali, tutti uniti.

Buona lettura.

ASTEROIDE CENTOCINQUANTADUE – Racconto di Luana Lamparelli –

Alle volte penso al futuro.

Quando cammino per strada, soprattutto.

Passo, dopo passo, dopo passo, anche la mia fantasia si spinge troppo in là.

Il rimprovero è sempre stato quello di averne troppa; alle medie venivo rimproverata per starmene continuamente con la testa tra le nuvole. È vero, ero sempre da qualche altra parte. Quando me ne accorgevo, tiravo giù i piedi dall’asta orizzontale della parte bassa del banco, li fissavo a terra. Letteralmente tornavo coi piedi per terra, m’imponevo di farli pesare più che potessi. Immaginavo, allora, di indossare anche io delle scarpe di ferro, di quelle che avevo sentito si utilizzassero negli anni Ottanta, il decennio precedente,  per correggere i piedi piatti. Solo che a me servivano per correggere la distrazione, l’evasione del pensiero; per affondare radici nel pavimento sotto il mio banco e non far volare via l’attenzione. Ma questa se ne fregava: faceva come voleva, si sintonizzava quando le conveniva, quando qualcosa l’incuriosiva. “Non possiamo certo rimproverare l’alunna perché ha un buon rendimento scolastico, studia, è brava, è la migliore della classe, però questo fatto che se ne va per conto suo, guardando fuori dalla finestra o chissà dove…”, diceva a mia madre la coordinatrice di classe, la temutissima prof di Lettere. Lasciava sempre in sospeso quella frase avversativa e chiudeva con “Si distrae”.

“Distratta” dicevano loro. “Non attratta da voi, dai vostri argomenti”, avrei voluto correggerli io.

Adesso la mia fantasia continua a spingersi sempre troppo in là, ma si lega alle responsabilità, alle considerazioni sul reale, alle vicende dei nostri giorni, e prende mille strade, molte più di quante non ne percorra io. In qualche modo, quelle scarpe di ferro hanno funzionato.

Questa mia immaginazione: vaga, spazia, esplora. Anche nel tempo.

Al futuro, però, essa si lega in un modo strano.

Mi chiedo: come sarà il mondo quando noi non ci saremo più?

Non quando io sarò morta, sostituita da un altro nome sul registro dell’anagrafe, no. Intendo dire: quando noi, genere umano, specie animale, ci saremo estinti.

Inizio a immaginare i palazzi, le scuole, i ponti, le autostrade abbandonati a sé tra la vegetazione che cresce e s’infoltisce.

Le dighe, i laghi artificiali, tutti gli argini interdetti dalla prepotenza dell’acqua che finalmente si rimpadronisce della propria libertà, che è forza, che è vita, anche se noi vogliamo contenerla sostenendo che sia pericolosa. La responsabilità etica che ho studiato e amato dice che la libertà deve essere rispettosa dell’altrui libertà, quindi non può essere illimitata. Anzi, al contrario, la vera libertà è capace di autolimitarsi, che poi è l’equivalente dell’autodeterminarsi, se ci pensiamo bene. Sto volando già altrove con la mente, scusatemi.

Senza di noi, penso ai cimiteri con le fotografie scolorite e stinte che qualche animale forse annuserà. Credo che tutto quello prodotto dagli uomini: bottiglie, contenitori, vasi, quaderni, libri, tutto quello creato e innaturale in qualche modo le razze animali che ci sopravviveranno sapranno renderlo utile, meno offensivo. La stessa natura se ne impadronirà, magari da sola riuscirà a trovare il modo per velocizzare i processi di smaltimento, lei che è così brava ad auto-equilibrarsi.

Vedo il silenzio regnare ovunque: i cd, i quarantacinquegiri, le audiocassette, le videocassette, le pen-drive, le memorie esterne, gli stereo, le autoradio, le  radio, le televisioni, i cellulari, i computer, i tablet e tutto quello che ancora dobbiamo inventare: chi se li ricorderà?

Le isole galleggianti formatesi con i rifiuti plastici amalgamate, soffocate da alghe, forse davvero diventeranno porzioni di terraferma circondate dal mare, e la geografia planetaria sarà tutta diversa. Forse l’America Latina e la Spagna saranno unite grazie a siffatte formazioni, e allora chi si preoccuperà di stabilire se l’una debba essere sottomessa all’altra o viceversa? Dei manuali di storia, delle planimetrie e delle cartine passate nessuno si preoccuperà di sentirne il parere, di consultarne la voce, di risalire ai premier, alle dinamiche e alla dinamite utilizzate per far saltare i diritti e imporre i doveri. Il ponte che collegherà la Sicilia al resto dello Stivale allora finalmente sarà pronto?

E poi pian piano anche i mille edifici, i grattacieli e i boschi verticali potranno diventare colline, montagne, e in un certo senso della nostra scomparsa sarà valsa la pena. Più del nostro operato su questo pianeta.

Le automobili e i treni e gli aerei parcheggiati e inusati saranno finalmente le case per tutti i cani abbandonati, per i gatti, e perché no?, per i koala e i dromedari e le mucche. No, forse le mucche continueranno a starsene nelle stalle, le volpi nei boschi, i cinghiali sulla Murgia. Oppure no. Beh, che facciano come preferiscono: noi non li disturberemo più, né nel loro habitat né altrove.

Dev’essere bello poter ascoltare quel silenzio che pare immobile, quasi eterno.

Il cinguettio dei passeri anche il lunedì e il giovedì, ogni giorno come fosse domenica, e il senso dei giorni, il loro succedersi, perdersi nel tempo che tanto abbiamo scandito, rincorso, rimpianto.

Questo pensiero mi prende sempre più spesso.

Anche quando non cammino per strada, che sia in affanno o in tutta calma.

Anche quando sono davanti al caffè.

Anche ora, per esempio, mentre ti aspetto seduta a questo bar.

Quanti anni sono che non ci vediamo?

Centocinquantadue. O forse centoventicinque. Uno, due, cinque, dodici, venticinque, quindici, cinquantadue. Ho perso il conto, ma non importa, perché oggi parleremo.

 Ti sto aspettando per dirti quello che già sai, e chissà che questa volta non riusciremo a parlare davvero. Chissà che questa volta riusciremo a conoscerci davvero, a guardarci negli occhi come abbiamo sempre fatto senza però volerci rivelare mai.

Giorni e giorni e giorni a rincorrerci, a trovarci, a sfuggirci.

Come quando entrambi sbucavamo dal nulla l’uno di fronte all’altra, per le strade di un paese non mio, entrambi nella stessa direzione ma nel verso opposto: tu verso di me, io verso di te, è così che il destino ci faceva incontrare. Occhi negli occhi come se ci fossimo dati appuntamento, sincronizzati nelle nostre quotidianità, in preciso orario per scivolarci via.

Ti sto aspettando per sorriderci come facevamo quando giocavamo a quel gioco al massacro.

Adesso io non vorrò andarmene e tu non scapperai.

Forse questo desiderio brillerà nel cielo, nuova stella puntata lì dove noi non potremo mai vederla, bagliore improvviso e leggero in un mattino di luce, o forse è un pomeriggio, tra centocinquantadue anni. Anni luce.

O magari quella stella esiste già e il nostro caffè diventato freddo per il troppo parlarci è solo la proiezione della sua luce. Che giunge in ritardo, come noi nei nostri giorni.

Il futuro: questo sconosciuto che accarezzo in modo bizzarro perché il passato non mi lascia andare.

Asteroide Centocinquantadue – ©Luana Lamparelli | Tutti i diritti riservati ai sensi di legge

Fotografia: ©Alessandro Pession | Tutti i diritti riservati

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Luana Lamparelli
Luana Lamparelli, pugliese, autrice e scrittrice, collabora con artisti, scrive racconti romanzi e poesie, cura rubriche.

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