L’arte di Domenico Velletri

Tra dipinti e protagonisti in stop-motion, la passione per le passioni

L’impeto irrefrenabile delle emozioni che prendono forma attraverso colori e pennellate, trasformando il bianco della tela in porta spalancata sul sentire del pittore. La passione per la storia dell’arte, la consapevolezza dell’imprescindibile importanza della sua conoscenza a cui un personaggio bizzarro ci invita con originalità.Da una parte, la poesia dell’arte figurativa; dall’altra, la passione per l’animazione con la tecnica dello stop-motion e la paternità di un personaggio dal successo nazionale, Cecilio, di recente “ospite” alla Notte europea dei musei di Cremona. Due dimensioni dell’arte per un unico nome: Domenico Velletri.

Ho incontrato Domenico Velletri, per conoscere meglio come nasce la sua arte, per dialogare con l’uomo che l’artista è, al di là delle sue opere e delle sue trovate geniali.

Ancora una volta ho l’occasione di cogliere le sfumature dei suoi dipinti ammirandoli dal vivo, nel suo studio personale a Bisceglie, il suo paese d’origine, dove tuttora vive.

I tuoi quadri sono molto evocativi, dai tratti sempre carichi di pathos. Il loro messaggio ha un impatto forte e immediato con chi li osserva. Comunicano la passione o il sentire che ne ha determinato la creazione, si percepisce chiaramente l’immediatezza del fluire del tratto pittorico, guidato da un sentimento intimo e profondo. La tua arte è scevra dalle logiche che solitamente muovono e guidano le produzioni del panorama pittorico e artistico in generale. Personalmente colgo ciò, osservando i tuoi quadri. Puntando lo sguardo altrove, trovo Cecilio, un progetto completamente diverso, ormai entrato nelle case di tutti con la capillarità che solo la piattaforma web Youtube e internet oggi possono offrire.

Se non lo sapessi, penserei che la mano creatrice delle tele sia estranea a quella da cui Cecilio trae origine. Come coniughiamo queste tue espressioni artistiche?

Cecilio e i miei quadri sono fortemente e unicamente legati dalla passione per l’espressione artistica. I dipinti nascono da un contrasto, sia che siano a colori, sia che siano in bianco e nero. Nascono da emozioni vissute e fortemente sentite, che siano positive o negative, come bene hai colto, oltre che per l’esigenza di tirar fuori quello che mi attraversa e per comunicarlo, condividerlo con chiunque si affacci a contemplare le mie opere. Per questo sono dipinte di getto; a volte, in sole due ore di lavoro, l’opera è già realizzata e ultimata. I toni non sono mai sfumati, piuttosto troviamo contrasti marcati, particolari. L’esigenza che mi guida è quella di immortalare un momento preciso. Da sempre è così.

Cecilio, invece, nasce nel 2013, dalla passione per l’animazione e il creare insieme. Il semplice divertimento di vedere animarsi tanti fogli sfogliati velocemente sotto le dita ha fatto sì che la lampadina si accendesse e che qualcosa nascesse: Cecilio, appunto.

Per i tuoi dipinti, il tempo di lavoro è celere: hai dichiarato che possono essere utili anche solo due ore. Un episodio di Cecilio dura generalmente poco meno di quattro minuti. Il tempo di lavoro che c’è dietro un singolo episodio, però, qual è?

Per realizzare un singolo episodio occorrono circa cinque o sei giorni, per otto o nove ore di lavoro al giorno. Ogni secondo di filmato è realizzato attraverso venticinque scatti fotografici. Un lavoro molto impegnativo e molto concentrato, con livelli di attenzione elevatissimi, dettagli sempre sotto controllo. Ogni aspetto è curato da me: dai quadri di scena, miniature di opere mie e degli artisti in cui Cecilio si trasforma inconsapevolmente, all’ambientazione della scenografia, ai costumi che cucio a mano io stesso. Non lavoro da solo: con me c’è Angela Morgigno, laureata in Scienze dei beni culturali, organizzatrice di eventi culturali. (Angela Morgigno è anche la sua compagna, ndr)

Come interpreti la temporaneità dell’installazione e la fissità dell’opera d’arte dipinta?

Non amo particolarmente le installazioni: sono più per l’approccio intimistico dell’arte, preferisco entrare nelle case del pubblico in silenzio, quasi in punta di piedi.

Esiste una corrispondenza unica e imprescindibile tra l’immagine che si compone nella tua mente, che prefiguri visualizzandola attraverso la tua immaginazione, o è tutto in divenire?

Quando vivo emozioni e sensazioni forti e impetuose, inevitabile che mi ponga di fronte alla tela. Non c’è un’immagine precisa nella mia mente, non ci sono tratti precisi già delineati, in quel momento. C’è solo il desiderio di esternare pittoricamente quel che provo. La sorpresa delle forme e dei colori che infine la tela accoglie investe me prima di qualunque altro osservatore. Vivo così il mio creare, le mie opere nascono e rivelano a me la propria identità sotto le mie dita, sotto i miei occhi.

Il valore etico dell’arte del dipingere, intesa nel senso più stretto e concreto dell’intingere il pennello nel colore, impastarlo dopo averlo disposto sulla tavolozza, il dar forma e colore all’immagine e vederla lì sulla tela. Qualcosa che con la tecnologia quasi si è dimenticato, o perso. Molti pittori, oggi, in realtà, non disegnano: la loro arte è fatta di fotografie poi rielaborate attraverso software che consentono di “dipingere” l’immagine. Cosa mi dici a riguardo?

Non rinnego la tecnologia, che apprezzo per la possibilità di realizzazione di alcuni progetti (vedi Cecilio e la tecnica stop-motion, ad esempio).
Tuttavia ritengo che un artista del mio settore, ovvero un pittore e/o uno scultore, non possa prescindere dalla conoscenza dei materiali e dei loro usi.

L’autorevolezza del gesto del dipingere e di quei rituali di preparazione e predisposizione possiamo toccarla con mano ancora oggi?

Assolutamente. Io la colgo e ne trovo dimostrazione nei miei laboratori con i bambini. I loro stessi genitori desiderano che avvenga il reale contatto con l’arte non mediato da tecnologia alcuna. Sto constatando una riscoperta del valore etico dell’arte talmente forte che i bambini non vogliono più andar via a fine lezione, non vogliono più smettere di creare con le tempere, di sperimentare le tecniche con gli strumenti e i materiali messi loro a disposizione. Se ci soffermiamo a pensare a ciò e allarghiamo il discorso, è inevitabile non pensare alla necessità e all’urgenza del recupero della tradizione anche nel gioco, nella componente ludica della nostra vita.

La continuità nel creare, inteso come percorso produttivo che accompagna la crescita dell’artista. Se ti soffermi oggi nell’osservare le primissime tue opere e subito dopo passi alle ultime realizzate, come ti riconosci in esse e tramite esse?

Inevitabile notare il cambiamento, certo. Le prime opere sono diverse dalle ultime, ma le riconosco sempre, non rinnego nulla. Ci sono sempre io, lì nelle prime, benché vi ritrovi immagini e colori differenti. Non rinnego nulla, anzi: la diversità tra la mia arte raffigurativa iniziale e l’attuale evidenzia il miglioramento, la crescita dell’artista. Lo stile è cambiato, a rivelarlo è la tecnica, ora più approfondita che in passato. Questa divergenza non può che rendermi soddisfatto, soprattutto perché il mio creare non è mai stato mosso dalla necessità di compiacere il pubblico, di avere un riscontro forte e massivo a livello commerciale. Ho sempre creato per il piacere dell’atto artistico in sè.

Spesso, agli artisti che incontro, muovo provocazioni. Per vedere come reagiscono, cosa mi rispondono a freddo, su due piedi, o anche solo per vedere l’effetto che fa. Una provocazione anche per te: l’artista inteso come sismografo della società. Cosa mi dici?

(Sorride, ndr.) L’artista come sismografo della società, dici? Questa mi piace, non ci avevo mai pensato. Tu cosa mi dici, visto che è una tua considerazione?

Dico che inevitabilmente è così. L’arte ci rappresenta, siamo tutti in crisi, alcuni opachi, altri in ricerca e in discussione, di sé, di altro da sé, su più fronti. Di questa crisi l’arte è testimone e testimonial, se vogliamo. Ma torniamo a te. Adesso, visto che siamo un po’ usciti dal rigore che l’atto del creare evoca, ti concedo e ti rivolgo delle domande più conversevoli. Te le pongo sotto forma di enunciati matematici, assiomi quasi. La prima: il punto di partenza, se non anche la meta, o una meta.

Il punto di partenza è me stesso, quello che sento, come voglio viverlo e rappresentarlo. Sempre. La meta… Non voglio vedere la meta: voglio andare avanti, procedere sempre e crescere.

Per “vedere l’effetto che fa”, come sopra. Adesso la seconda: un film, un libro, un cantante.
(Perché questa domanda?, mi chiede. Pretende la risposta, gli dico che è un mio cult, ma non è per tutti: la riservo solo a chi parla meno, o- potremmo dire- a chi non ama molto parlare, come lui. Avendo risposto che sì, parla poco ed è alquanto introverso quando io ho chiesto conferma della mia constatazione a riguardo, all’inizio della nostra chiacchierata, non può certo sottrarsi, o pensare che io lo preservi da tale “privilegio”. Divertito –e rassicurato soprattutto, perché alle volte la sua riservatezza mi è sembrata volesse affermare “state attenti a quel che dite: tutto potrebbe essere usato contro di voi”- procede nel rispondermi.)

Per i film: tutti quelli di Troisi, per la sua poesia ironica, la similarità con i miei quadri. Un suo film su tutti? “Ricomincio da tre”, decisamente.
Per le canzoni: quelle rock, i primi Litfiba soprattutto, per i suoni e i testi, a tratti incomprensibili.
I libri: quelli di Moravia. Amavo leggerlo perché mi faceva viaggiare, e poi c’era il suo forte erotismo. Mi piacciono molto i fumetti, ne leggo sempre.

Adesso l’ultima, poi smetto di torturarti, giuro! Il colore, la luce, il bianco, per Domenico Velletri.

Il bianco per me rappresenta la luce, ma anche la drammaticità. Preferisco usare il bianco per conferire questo aspetto ai miei quadri, piuttosto che il nero. Il bianco è assenza di colore: è lì, in quell’assenza, che esiste la drammaticità, per me.
La luce è fondamentale perché tutto e tutti i colori abbiano significato, compreso il nero. I colpi di luce e i contrasti di colore sono sempre al centro delle mie opere, per esprime al meglio il massimo.

E ora scoprite voi l’arte di Velletri, incontrate voi Cecilio, tra il suo sito internet, Youtube e le numerose pagine web che parlano di loro, passando per il suo studio.

© Luana Lamparelli 2014

Articolo pubblicato il 13 Giugno 2014 nella rubrica “Ars Artis”. Seguila in anteprima esclusiva sui portali barilive.it, tranilive.it, coratolive.it, ruvolive.it, terlizzilive.it, giovinazzolive.it, bitontolive.it

Municipale Balcanica, la musica che unisce piazze e popoli

Dall’est Europa con furore, passando per le fanfare

Appuntamento, orario, citofono. Cancello pesante, atrio, portone in legno massiccio. Oltre, una sala larga e una scalinata che sale con l’eleganza di altri tempi, gli stessi che si confondono con quelli attuali attraverso alcuni oggetti che adornano l’ambiente. Mentre salgo, tra tutto ciò che riesco ad afferrare veloce con lo sguardo, un grande logo circolare, rosso, su cui spicca un nome ormai famoso, di un gruppo musicale che ha molto da insegnarci.Gli ultimi gradini, un saluto cordiale, eccomi in casa. Tra libri, dischi, quadri, incontro Giorgio Rutigliano, il bassista della Municipale Balcanica, direttamente a casa sua. Perché questo gruppo, che sta spopolando ormai da anni riscuotendo un successo clamoroso ed esponenziale, in patria così come oltre i confini nazionali, questa Municipale Balcanica che fa ballare e parlare di sé ovunque vada, deve raccontarci la propria storia, non solo per le oltre centomila persone che ha fatto ballare e divertire durante il concerto del primo Maggio tenutosi a Taranto, ma anche e soprattutto per chi non ha potuto prender parte.Lontano dalle luci del palco, in un tranquillo pomeriggio di Maggio, senza musica di sottofondo (ma solo inizialmente, perché arriverà anche quella, nel corso dell’intervista), ascolto così una storia che ha dell’incredibile e che mi riporta indietro di quasi dieci anni, quando li ascoltai per la prima volta, in una sera d’estate, in quella splendida terra del Salento.La Municipale Balcanica nasce nel lontano 2003. “Quando io nemmeno c’ero”, precisa Giorgio, e trovo curioso che a condurmi in questo viaggio, tra la storia e le sonorità del gruppo, sia proprio lui.

Il gruppo nasce da un’idea del trombettista Paolo Scagliola, del sassofonista Raffaele Piccolomini e dell’addetto alle percussioni e agli effetti Nico Marziale, che è anche presidente. Perché la Municipale Balcanica è anche associazione culturale, organizzatrice di corsi ed eventi”, mi spiega Rutigliano.

I nomi di Piccolomini, Scagliola e Marziale, da quel lontano 2003, si ritrovano tutt’oggi nella formazione del gruppo, che – “Tra gente che va e gente che viene” – si è assestata nel 2006, con otto membri fissi e stabili: troviamo così anche Michele De Lucia al clarinetto, Armando Giusto al sax alto, Luigi Sgaramella alla batteria, Raffaele Tedeschi, il chitarrista di cui è impossibile non riconoscere la voce, unica protagonista dei brani cantati, e dulcis in fundo Giorgio Rutigliano, al basso.

Lui che è un ex giocatore di pallacanestro con i suoi 193 centimetri di altezza. È questa la formazione che riconosciamo e ritroviamo sui palchi, durante i concerti e nei videoclip, risultante della storia in divenire che, come ho scoperto parlando con il bassista Rutigliano, affonda le radici già in tempi antecedenti quel lontano 2003. Se è quello l’anno ufficiale della nascita della Municipale Balcanica come gruppo musicale e associazione culturale, infatti, le radici dell’idea da cui trae origine sono più profonde e risalgono al 1991.

Un anno particolare, il 1991: anno in cui il nostro contesto socio-culturale si faceva testimone e protagonista di un evento tragico. Attraccava al porto di Bari la Vlora, direttamente dall’Albania dove era dapprima giunta carica di zucchero proveniente da Cuba e poi presa d’assalto dagli emigranti albanesi che ne costringevano il capitano a seguire la rotta per l’Italia. Un racconto di disperazione al limite dell’umano. Lo sbarco degli albanesi in Puglia è stato un episodio della nostra storia dalla portata esponenziale su diversi fronti, incluso quello culturale. Marziale, Piccolomini e Scagliola hanno prestato sin da subito particolare attenzione alla loro musica: intrisa delle influenze balcaniche e ricca di sonorità non ancora conosciute né sperimentate dai nostri musicisti.

L’attenzione per le sonorità dell’Est è propria dei tre capostipiti della Municipale Balcanica, ma è il filo rosso che unisce tutti coloro che si sono alternati nel tempo e che costituiscono oggi il gruppo della band. Un elemento imprescindibile e dalla portata massima, continuamente e costantemente rivisitato in una chiave molto pugliese e personale dai musicisti della Municipale Balcanica, “sempre pronti a far propri i messaggi e le melodie”, precisa subito Giorgio. Le influenze artistiche che riecheggiano maggiormente nei componimenti musicali della Municipale Balcanica provengono sia dal panorama musicale, sia da quello cinematografico, dall’estero così come dalla nostra amata Italia.

È così che con Giorgio Rutigliano iniziamo a parlare del musicista Bregovic, dei film di Emir Kusturica e dei Gogol Bordello, Shantel, Vinicio Capossela, Bandabardò, Modena City Ramblers e Folkabbestia. Dall’Albania e dalle sonorità proprie di questo popolo, i nostri musicisti hanno poi spostato l’attenzione sulle fanfare balcaniche, conoscendo così personalità musicali che pian piano entrano a far parte del DNA della Municipale Balcanica.

Da quel lontano 2003 la strada è stata davvero lunga, tanto che ad oggi nel loro storico annoverano oltre cinquecento concerti in tutte le parti del mondo. Il 2013, in particolare, li ha visti protagonisti dello scenario musicale mondiale, avendo suonato e portato la loro energia in Brasile, Austria e Francia, nonché, negli anni passati, anche in Slovenia, Germania (“Per un numero imprecisato di volte”, specifica Giorgio Rutigliano), e poi ancora Olanda, Bulgaria, Ungheria, Turchia, Portogallo. Basti pensare che il loro primo concerto all’estero risale al lontano 2004, quando la Municipale Balcanica si esibì a Stoccarda.

Come nascono i vostri brani musicali?

“Il nostro repertorio vanta sia brani con un testo cantato, sia brani esclusivamente strumentali. I testi sono quasi tutti a firma di Raffaele Tedeschi, il nostro cantante e chitarrista. Il lavoro prettamente musicale, invece, è un processo abbastanza democratico.
Ognuno dei componenti propone le proprie idee, che sono sempre punto di partenza per una rielaborazione a cui partecipiamo tutti attivamente e creativamente, a meno che l’idea iniziale non sia già rifinita con precisione e alla perfezione.

La maggior parte dei pezzi non è cantata: si tratta di brani strumentali, in cui prevale il linguaggio della musica, capace da solo di trasmettere emozioni e coinvolgere in modo esponenziale. Tutti i nostri pezzi nascono con l’obbiettivo di coinvolgere, unire, trasmettere gioia, diffondere armonia. Come compositori, il maggior apporto è dato da Piccolomini soprattutto; tra gli altri spiccano anche Nico Marziale e Raffaele Tedeschi”.

Esiste un messaggio forte contenuto in tutti i vostri brani?

Il messaggio interiorizzato e fatto proprio dalla Municipale Balcanica è quello di rendere la musica luogo d’incontro: ogni concerto è un luogo spettacolare in cui incontrare e incontrarsi. Quello che a noi interessa non è essere guardati dalla gente, non è avere addosso tutti gli occhi, non è essere puntati come rock star da venerare. Noi non vogliamo che la gente guardi il palco: desideriamo che ognuno rivolga lo sguardo a sé stesso e chi gli sta accanto, a chi gli è intorno.

Tutti devono guardarsi in faccia e far festa, mettendo da parte i pensieri e i problemi che inevitabilmente si hanno, per un paio d’ore
almeno. Tra le tappe delle vostre tournèe ritroviamo anche molti Paesi dell’Est, dove le sonorità dei vostri brani praticamente “tornano a casa”.

Come siete accolti in questi Paesi? Il pubblico è più attento e critico o lo spirito dei vostri brani trova un terreno più fertile?

“L’approccio dei Paesi dell’Est nei nostri confronti è connotato sempre da forte curiosità. Questo, per la Municipale Balcanica, si traduce in una sfida continua: una sfida vissuta in termini totalmente positivi e propositivi, con lo spirito proprio di chi vuol mettersi alla prova, impegnandosi al massimo per vedere poi cosa succede”.

E solitamente cosa succede?

Siamo sempre ripagati. (Mi risponde, Giorgio, con gli occhi che brillano e l’umiltà sul volto, ndr.) Quello che più ci piace, durante i concerti o nelle collaborazioni, è l’energia messa in circolo, da cui deriva una sinergia che sempre si ricrea. Questo è davvero motivo di orgoglio. Comunichiamo attraverso la musica, andiamo al di là della comunicazione verbale.

È un livello di comunicazione superiore. Dal palco diciamo qualcosa che va oltre le parole, che non si può rendere a parole, ed è bello veder tornare a noi tutto ciò attraverso l’energia e la vitalità del pubblico, il suo coinvolgimento, la sua partecipazione, il suo ballare, ridere, scherzare. Sono un dare e un ricevere simultanei, non filtrati, immediati, per questo autentici e dal potere incommensurabile”.

Oltre a farci conoscere sonorità nuove e abbattere le frontiere politiche per avvicinarci tutti e renderci davvero cittadini del mondo attraverso le note e l’energia che trasmettono, i musicisti della Municipale Balcanica collaborano con diversi istituti di cultura italiana all’estero, per esportare la nostra musica e la nostra cultura. Il loro repertorio, infatti, comprende anche pezzi italiani della musica e della canzone propri della tradizione del nostro Paese.

Fino ad oggi hanno inciso tre dischi: il primo (“Foua”) nel 2005, il secondo (“Road To Damascus”) nel 2008 e il terzo (“Offbeat”) nel 2012.
Nel 2013 hanno vinto un concorso indetto da XL, il mensile di musica e spettacolo de la Repubblica, realizzando così un videoclip. Tra tutti quelli del proprio repertorio, per la realizzazione del videoclip hanno scelto “Giugno 1917” un brano cantato in cui si affronta una tematica a loro cara e vicina, quale quella dell’amore senza limiti.

Il testo della canzone narra di un soldato partito al fronte durante la prima guerra mondiale, innamorato e costretto dalla guerra a separarsi dalla persona amata, ma non dal sentimento, che vive attraverso lettere scritte. Nella resa filmica del videoclip hanno scelto due protagonisti particolari per questo amore, che viene così declinato in una chiave progressista ed emancipata: guardare per credere con semplici click su Youtube, cercando il brano intitolato “Giugno 1917”.

Abbiamo continuato a parlare, io e Giorgio, di libri, biografie e autobiografie di artisti diversissimi, di tatuaggi, amore e atteggiamenti della nostra società, o anche solo degli utilizzi linguistici che denotano come nel 2014 siamo progressisti ed emancipati solo a livello teorico. Non è un caso, infatti, se distinguiamo ancor oggi l’amore con aggettivi che rivelano l’identità sessuale degli amanti. Intanto il nostro pomeriggio insieme per quest’intervista volge al termine e a me resta solo da porre la domanda più difficile: quella sui progetti futuri, per molti artisti un tabù quasi, tra riserbo e scaramanzia.

Ho provato comunque a rubare qualche novità. Durante questa prima metà del 2014 hanno registrato un progetto parallelo, e oltre ciò Giorgio non si pronuncia, mantenendo un rigorosissimo silenzio stampa, incorruttibile persino con tentativi di indovinare da parte mia, ovviamente tutti mal riusciti. Enorme l’effetto suspance creato, prima di tutto in me. Le novità non si fermano a questo progetto top secret: pensano già al prossimo disco, e questo significa che la Municipale Balcanica ci sorprenderà per ben due volte nel corso di questo anno.

L’unica anticipazione che riesco ad avere dal nostro bassista è che questo nuovo disco avrà una direzione totalmente nuova. “Vediamo che succede, anche qui, come sempre. È la nostra parola chiave”, conclude Giorgio Rutigliano. E io proporrei allora di lanciare un hashtag #vediamochesuccede, tutto a sostegno della Municipale Balcanica. Sicuramente cose belle, per far festa e dimenticare tutto, anche solo per due strepitose ore.

© Luana Lamparelli 2014

Intervista pubblicata il 30 Maggio 2014 nella rubrica “Ars Artis”. Seguila in anteprima esclusiva sui portali barilive.it, tranilive.it, coratolive.it, ruvolive.it, terlizzilive.it, giovinazzolive.it, bitontolive.it

Prospettive, Giuseppe Tangorra si racconta e ci racconta la sua fotografia. Non chiamatelo fotografo

Spalle larghe, sorriso sincero, sguardo intenso. Poche parole: precise, misurate, inequivocabili.

Un’arte: quella di guardare il mondo e catturare il bello che altrimenti sfuggirebbe inarrestabile, come sempre, per la distrazione, per la fretta, nell’alienato camminare in cui spesso ci perdiamo.

Un nome: Giuseppe Tangorra, un fotografo.

«Se mi chiami fotografo, intendi che sono arrivato all’apice, quel punto di arrivo oltre il quale non si può andare. Se mi sentissi fotografo, non avrei più niente da cercare», mi dice. Seduti al tavolo del bar di un paese non nostro, sorrido a sentir parlare di apici e non-definizioni: vagamente mi ricordano qualcuno, e più d’uno. «Come ti definisci, allora?». «Mi definisco nel modo più brutto: un ragazzo con la macchina fotografica».

Intanto il prossimo 14 Luglio Giuseppe Tangorra inaugurerà la sua nuova mostra, esponendo gli scatti di Capurso che lavora. Un progetto artistico che, nato a Benevento e per Benevento, è stato reso difficile dalla vastità della città. Ma ci vuol poco perché torni fuori dal cassetto: una sera, un giro in auto per le strade di sempre, il desiderio di far qualcosa per il proprio paese. L’obiettivo è la valorizzazione dell’altrui lavoro attraverso il filtro della macchina fotografica.

«Per il piacere di dare e restituire piacere a chi lavora, in un momento di grosse difficoltà che ben conosciamo», precisa Giuseppe Tangorra. Si tratta, come mi spiega subito dopo, anche e soprattutto di regalare un momento storico alla memoria del tempo del proprio paese. «Molte attività da qui a dieci anni non ci saranno più, se ne perderà traccia perché non vi è chi possa continuare la tradizione dei piccoli artigiani. Guardando questi scatti si potrà vedere la Capurso che siamo oggi e che eravamo domani, con i nomignoli e i soprannomi che molti commercianti hanno, per la tradizione e per la familiarità proprie dei piccoli centri. Quelle piccole cose che rimangono solo nelle cittadine. Siamo da invidiare».

Capurso che lavora è il prossimo di molti progetti artistici già esposti in mostra, molti dei quali si possono ammirare e apprezzare tramite il sito internet.

La fotografia di Giuseppe Tangorra è quella di chi ha la passione innata e scoperta grazie a una semiautomatica lasciata in giro per casa e al desiderio di sentire quel click tanto affascinante e appagante. Il suo viaggiare lavorando, come ama definirlo, ha poi trasformato questa passione in mestiere, e il mestierante in un professionista sempre più competente.

È, la sua, una fotografia che racconta di paesaggi, di volti, di enigmi celati in luoghi-non-luoghi, e dell’abbandono. L’abbandono come difficoltà di comprensione e accettazione cui la condizione di abbandonati induce; una sublimazione del dolore attraverso la forma artistica che meglio parla di sé, che meglio può riconciliare con la parte di sé ferita. La forza propulsiva della bellezza dell’abbandono: questo è alla base del suo primo grande lavoro avviato qualche anno fa. Il suo vero obbiettivo, però, è negli occhi. Gli occhi che ricerca, gli occhi che fotografa o che –volutamente- lascia che gli sfuggano. È, il suo, quasi un fissare eterno dell’immagine colta tra un battito di ciglia e l’altro, tra un passo e l’altro, tra il vivere dinamico e il dinamismo che ci vive intorno. Il bianco/nero predomina e guida, nella lettura dell’immagine catturata e rivelata all’osservatore.

Inevitabile chiedergli perché la scelta del bianco/nero (b/n).

«Perché sono daltonico», mi risponde ridendo. Poi, facendosi serio, racconta: «Non fotografavo in b/n finchè non ho incontrato un grande fotografo che mi ha insegnato tanto, a cui sono molto legato, quasi da un rapporto di fratellanza: Domenico Tattoli (ndr). Un giorno mi disse: il colore crea confusione; il b/n, invece, basandosi su ombre e luci, ti mostra la realtà. Queste sue parole sono state folgoranti per me, mi sono immerso subito nello studio del b/n, delle ombre, delle luci. Ho scoperto così che, se scattavo in b/n, vedevo me stesso nelle foto, quello che ero al momento dello scatto e quello che sono. È per questo che nel mio b/n c’è poco contrasto: cerco di liberarmi dai miei contrasti interiori».

Gli scatti di Giuseppe Tangorra possono essere analogici o digitali, ma -da buon professionista amante del suo mestiere- mi conduce (riportandomi, in verità) nella magia dell’analogico attraverso le parole che usa per descrivere l’emozione del veder nascere la foto, momento dopo momento, nella camera oscura, quel luogo sconosciuto ai più, fatto di acidi, vaschette, tempi di attesa e manovre precise per ogni risultato desiderato o sperato, dove l’immagine si compone sulla carta fotografica bianca istante dopo istante, sfumatura dopo sfumatura. Un luogo dove si imparava a veder nascere l’immagine e dove si temprava la capacità di attendere, di pazientare, e dove molti fotografi ancora fanno vivere e rivivere l’arte della fotografia lontano dalle tecnologie d’avanguardia e dall’immediatezza della camera chiara che il digitale ha edificato.

«Nella camera oscura ci sei veramente e soltanto tu, mentre nella camera chiara ci sei tu attraverso la macchina, è tutto filtrato da interfacce e programmi», sottolinea Giuseppe Tangorra. «Anche per me è un’esperienza nuova e da scoprire passo dopo passo. A introdurmi e affiancarmi nell’acquisizione di competenze e tecniche di sviluppo c’è sempre Domenico Tattoli, grande esperto di fotografia, amico impareggiabile».

Ho voluto sottoporre al nostro fotografo degli spunti di riflessione, in realtà provocazioni.

«Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento e il rigoroso assetto delle forme percepite con lo sguardo che esprimono e significano tale evento. È porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. È un modo di vivere», Henri Cartier-Bresson, grande fotografo famoso in tutto il mondo, ha dichiarato ciò. Come commenti?

Emerge un Giuseppe Tangorra concorde con il grande fotografo fondatore della Magnum Photos, l’agenzia fotografica nata nel dopoguerra e divenuta famosa in tutto il mondo per i suoi connotati quasi sovversivi, indubbiamente innovativi e altamente valorizzanti la figura del fotografo professionista, ma solo per quello speciale allineamento di mente, occhi, cuore. Perché subito dopo affiora prepotente il suo essere contrario agli eccessi in generale: non condivide l’essere troppo rigoroso rispetto alla tecnica, «perché altrimenti perdi il vero valore della fotografia, non racconti più alcuna storia, alcuna emozione, alcun evento. Hai guadagnato e preso il bravissimo, ti porti a casa i complimenti, però intanto perdi la poesia della realtà», mi dice forte, animato dall’intensità emotiva che accompagna questo suo pensiero. «Personalmente sono attento al carpe diem della fotografia già visualizzata nella mia mente, piuttosto che a tutti gli elementi della composizione».

«Ricordalo. Ogni cosa che vedi guardando in basso, sulla lastra di vetro della tua Rolleiflex, è la realtà –le cose come sono. La fotografia è ciò che tu deciderai di farne di tutto questo». George Rodger.

«Quello che dichiarò Rodger praticamente nel secolo scorso è verissimo soprattutto oggi, ora che tutti hanno la mania degli scatti fotografici. Dare valore alla realtà è la vera differenza tra un fotografo e un ragazzino che scatta per la condivisione sui social», risponde duro Giuseppe.

Terza provocazione: tu hai un gruppo numeroso e solido con cui organizzi uscite per scatti e progetti, siete numerosi, dei veri professionisti, anche se nella vita alcuni di voi si occupano di tutt’altro, professionalmente parlando. Cconosco le vostre opere, so come lavorate. Se creassi un parallelismo tra voi e quel bel gruppo che mise su la Magnum Photos, come la metteresti?

Ride, accompagnando così il sorriso partito sul mio volto a fine provocazione.

«Più che dei grandi fotografi di Magnum Photos, io parlerei di Amici miei, il film, per tutto quello che combiniamo durante le uscite, in viaggio, durante i sopralluoghi e gli appostamenti per i nostri scatti».

Perdere uno scatto. Perdi uno scatto. Cosa significa, come reagisci, come ti consoli?

«Sono sempre attento a non perdere scatti, ma se lo perdo, è perché non mi sarebbe servito, e non dire che faccio il figo!», ride, si prende e mi prende in giro, poi torna serio, professionale direi. “Mi innervosisco e fumo una sigaretta. Perdere uno scatto, anche uno solo, alle volte può significare perdere una storia intera, perché questo è il potere evocativo di uno scatto fotografico. Uno scatto non realizzato è un reportage mancato. Se sbaglio è perché non sono un fotografo. Ho molto da imparare».

I ritratti, dopo i luoghi dell’abbandono, No man’s land, fanno parte del tuo lavoro, e hai parlato degli occhi che cerchi di fermare attraverso i tuoi ritratti. Credi che gli occhi attraverso la macchina fotografica possano mentire?

Sì. Fotograficamente parlando, siamo in un periodo in cui la foto non mostra più la realtà così come è, ma una realtà illusoria. Oggi possiamo mentire anche con gli occhi. Nel periodo storico in cui viviamo, gli occhi non sono più lo specchio dell’anima. I ragazzi che ci girano intorno si mostrano sicuri di sé,vestono alla moda, frequentano locali e ambienti come fossero viveur, ma cosa c’è dentro loro, dietro i loro sguardi che vogliono sembrare così altisonanti?

Se la fotografia avesse un volto…

«Sarebbe il volto di una lei, una lei che esiste davvero».

E su questa “lei” è meglio non indagare. Perché a brillare particolarmente, ora, sono gli occhi del ragazzo che mi è di fronte, al di là della macchina fotografica. Occhi che non mentono.

© Luana Lamparelli 2014

Intervista pubblicata il 16 Maggio 2014 nella rubrica “Ars Artis”. Seguila in anteprima esclusiva sui portali barilive.it, tranilive.it, coratolive.it, ruvolive.it, terlizzilive.it, giovinazzolive.it, bitontolive.it

Il progetto di tre ragazzi che hanno reso Bari set per una produzione cinematografica innovativa

Sinapsi. Il cinema nasce per strada, ma non per caso

Punto di contatto funzionale tra cellule diverse, connessione, trasmissione: sinapsi. Chimica. Solo chimica? No, non solo, non più.

C’è una nuova realtà contenuta nel nome “sinapsi” e merita la lettera maiuscola, oltre alla nostra partecipazione attiva e consapevole, come attori e come spettatori. E lo schermo cinematografico, sì, pure quello.

Sinapsi: è questo il nome di un grande progetto di cinema dal basso che giunge ora alla fase finale. La sfida è mettere in connessione tra loro persone che altrimenti non si sarebbero mai conosciute creando fra esse legami, in una città caotica e dispersiva quale Bari, e non attraverso le piazze virtuali dei social network, bensì attraverso un mezzo molto più “vecchio”, sempre affascinante e ambito: il cinema. Quasi a caso, ma non per caso. Sono queste le premesse fondanti e fondamentali di Sinapsi, che intende utilizzare l’esperienza di tutor professionisti unitamente all’esperienza di gente che nella propria vita svolge lavori lontani dai riflettori e diversi dai mestieri prettamente artistici, ma appassionata di cinema, fotografia, competente nel montaggio, nella regia, nella sceneggiatura e non.

Nasce nel 2013, quando tre giovani baresi strutturano adeguatamente un’idea iniziale in un progetto che presentano a Principi attivi. Vincenzo Ardito, Ilaria Schino e Andrea Sgobba: nella vita si sono incontrati benché si occupassero di tutt’altro. Vincenzo Ardito ha una vita professionale che si divide tra regia e laboratori cinematografici, oltre ad essere attore; Ilaria Schino è un’educatrice; Andrea Sgobba si occupa di promozione eventi e spettacoli.

Il progetto, presentato a Principi Attivi, si articola in tre diverse fasi: scendere in strada con un vero e proprio tour per far conoscere i propri intenti e trovare candidature è il primo step, a cui seguono selezione e start up per il lavoro più impegnativo e importante: scrivere la sceneggiatura di un film e realizzarlo. Tutto “da soli”, Niente professionisti, niente grandi produzioni o cast cinematografici.

È il 7 Marzo 2013 quando giunge la risposta da Spiriti Bollenti: il finanziamento c’è, Sinapsi diventa realtà.

Il successivo 28 Settembre, lo start up.

Un lancio importante, strumenti diversi per sensibilizzare la gente di tutti i giorni, informarla e far conoscere il progetto. Si cercano candidature, ne arrivano oltre duecento. A raffiche, interviste agli aspiranti protagonisti del film in tutte le sue fasi, colloqui e selezione. Il criterio di selezione utilizzato è semplice ma fondamentale: il desiderio di mettersi davvero in gioco con una motivazione strettamente personale, unitamente alla voglia di novità. Sessanta è il numero vincente: sessanta persone incontrate per strada entrano a far parte del progetto, iniziano a lavorare.

Sessanta persone che non si conoscono, con una vita che procedeva distante da simili progetti o ambizioni. Fanno tutti sul serio. Saranno loro i protagonisti attivi dello step successivo: divisi in diversi gruppi, lavoreranno su diversi fronti per inventare la storia da raccontare, buttar giù la sceneggiatura, mettere su il set, erigere la produzione cinematografica tutta.

Si incontrano dopo il lavoro, dalle 18.00 alle 20.00: il banchiere, il poliziotto, la casalinga, lo studente, il disoccupato. I fuori sede ritardano il regolare appuntamento col treno per tornare a casa, la Mediateca regionale e L’officina degli esordi –due importanti contenitori culturali attivi per la città di Bari- offrono i loro spazi a Sinapsi per poter lavorare in ambienti congeniali e confortevoli.

Siamo ormai a Maggio, un mese delicato per il progetto: è la parte finale del lavoro, la più pressante, come per tutti i progetti artistici.

Ho incontrato personalmente Andrea Sgobba, a Bari, per farmi raccontare questa bella esperienza. Con lui, Martina Melilli, filmaker e artista visivo unitasi alla squadra originaria in un secondo momento. È lei, Martina, a realizzare e curare i filmati che testimoniano le diverse fasi di realizzazione attraverso le voci dei partecipanti: un vero e proprio “dietro le quinte” del percorso maturato sino ad oggi che racconta e mostra come si è lavorato, come si sta lavorando, come è nata la storia che poi vedremo sugli schermi, come la sua sceneggiatura, come la sua fotografia e le sue riprese, o la preparazione per le singole scene.

“Si tratterà di una vera e propria web serie sul dietro le quinte”, mi racconta Martina.

Chiunque potrà seguire l’operato e l’evolversi di questo meraviglioso viaggio chiamato Sinapsi direttamente sul sito, www.sinapsi.it, dove da qualche giorno si può vedere il primo “episodio” di questa realtà. Un ritratto dal vero, quasi, considerando i tagli e il montaggio.

Conversando con Andrea e Martina scopro molte curiosità, come quella dei tweet, ovvero 140 caratteri per dare il proprio contributo all’incipit dell’opera, alcune storie nella storia sui diversi candidati e aspiranti a Sinapsi, o la soddisfazione di vedere il gruppo di lavoro stringere relazioni di amicizia al di là del progetto stesso.

Come mi racconta Andrea Sgobba, un obbiettivo intermedio del progetto era esattamente quello di   costruire relazioni attraverso il mezzo filmico che andassero al di là del progetto stesso. “Un obbiettivo fortemente raggiunto”, mi dice, “tanto che alle volte siamo noi ideatori che dobbiamo frenare le proposte di incontrarsi anche al di fuori delle fasi progettuali.”

Quello che mi affascina particolarmente è la capillarità del progetto, peculiarità indubbiamente prevista sin da subito: essendo un progetto che si fonda anche sul crowdfunding, chiunque può contribuire economicamente in qualsiasi momento e ognuno vedrà riconosciuto il proprio impegno: chi potrà vedere il film in anteprima, chi potrà partecipare a una festa che si terrà davvero e durante la quale saranno girate delle riprese per il film, chi potrà ritrovarsi nel film come comparsa, o nei titoli di coda tra i ringraziamenti.

Ho chiesto ad Andrea Sgobba qualche anticipazione sul film.

“Per ora il film ha un titolo provvisorio”, racconta Andrea. “Al suo interno vi sono tre storie. La prima narra di una coppia che si sgretola perché lui decide di trasferirsi al nord come ricercatore di un’azienda. La seconda racconta di un protagonista che, dopo 12 anni, torna al Sud, al suo paese d’origine, per realizzare il sogno di una vita: un bar; sarà una decisione legata a ricordi molto importanti che lo spettatore scoprirà man mano che le storie si riveleranno. Infine, la terza storia si incentra su una madre e sul rapporto simbiotico col figlio più piccolo, all’ultimo anno di scuola media superiore, col desiderio segreto di diventare fumettista. Storie senza nessun punto di contatto tra loro, inizialmente: nessuno dei protagonisti conosce gli altri, eppure a un certo punto le loro vite si intrecceranno. Sarà interessante scoprire come e quali dinamiche ne nasceranno.”

Bello è anche ascoltare i racconti su alcuni aneddoti. “È stato simpatico ricevere il post di qualcuno che voleva corromperci con le orecchiette fatte in casa dalla nonna, Prendete me e ve ne faccio fare tante!, ci ha scritto una volta un tizio. Questo dimostra come essere nella macchina creativa costituisca ancora una fortissima attrazione. Ci ha fatto piacere constatare come ognuno abbia deciso di dare il proprio contributo ridimensionando il proprio narcisismo e il proprio orgoglio. Molti sono i cinefili preparati e competenti, ma nessuno di loro si è imposto per occuparsi della regia o della fotografia, ognuno ha lavorato per tutto quello che c’era da fare e curare”, continua Andrea.

Per quel che mi riguarda, Sinapsi si pone nel nostro contesto storico e contingente come un esempio eclatante di cittadinanza attiva e sensibilizzazione alla sensibilizzazione verso tutti, oltre che essere un contenitore per imparare qualcosa e mettersi in discussione, imparare a collaborare e lavorare in gruppo. Sensibilizzazione alla sensibilizzazione: un gioco di parole? No, di più, molto di più. Perché, quando ci sono persone che lavorano con serietà e umiltà, qualunque associazione di parole che possa sembrare gioco sarà in realtà il significante di contenuti altri, certamente grandi e importanti, a partire dai valori che chiama in causa e dai legami che crea. Come vere sinapsi, in questo caso.

Sinapsi: la sinergia dinamica di chi vuol collaborare per realizzare qualcosa di più grande, quasi un’apertura delle monadi che siamo nei tempi odierni. Come non aspettare di vederli sul grande schermo?

© Luana Lamparelli 2014

Intervista pubblicata il 2 Maggio 2014 nella rubrica “Ars Artis”. Seguila in anteprima esclusiva sui portali barilive.it, tranilive.it, coratolive.it, ruvolive.it, terlizzilive.it, giovinazzolive.it, bitontolive.it

Un regista e una pittrice contro la violenza sulle donne. Chapeau

Il flashmob realizzato a Ruvo di Puglia contro il femminicidio e lo stalking. Denuncia e arte insieme

Youtube, un video, un personaggio già conosciuto nel mondo delle webserie: il protagonista di Bishonnen. Ma non è un nuovo episodio della celebre fiction del regista ruvese Michele Pinto: è un  flashmob contro la violenza sulle donne. Una processione di donne per le vie del mio paese d’origine, il protagonista e quaranta donne, tutti col volto coperto da una maschera. Silenzio. Persone presenti casualmente sulla scena che diventano spettatori e attori inconsapevoli, le stradine si snodano per il centro storico fino a giungere alla piazza del Paese. Un urlo. Una frase che prende possesso della scena. Due firme inconfondibili, la commozione e l’emozione a fine visualizzazione. Michele Pinto e Daniela Raffaele, insieme per questo nuovo lavoro di interesse sociale e culturale, oltre che di sensibilizzazione.

Qualche giorno dopo, sono con Michele Pinto nella galleria di Daniela Raffaele.Daniela Raffaele, pittrice e artista ruvese, in questo periodo della sua vita professionale e privata sta sperimentando e conoscendo una nuova fase: quella che l’ha indotta a divenire performer. “Perché voglio mettermi in gioco in modo totalitario nel fare arte, voglio che tutta la mia persona, ogni parte di me e del mio corpo divengano espressione d’arte, strumento per rappresentare e raccontare, non solo attraverso le capacità, le competenze e l’intelletto”, mi spiega lei.
Sedute comodamente, le chiedo di raccontarmi del flashmob. Quello che mi impressiona molto –e postivamente- è il fatto che non comincia raccontandomi del progetto, ma parlandomi delle emozioni che cercava, che voleva ottenere per restituirle agli altri.“L’urlo, io volevo sentire l’urlo”, mi dichiara subito. È con queste parole che inizia a raccontare. “Non l’urlo dell’unghia spezzata: quello di frustrazione, ribellione, liberazione.” Nel dirlo, Daniela Raffaele ha una luce particolare negli occhi, propria di chi ha ottenuto quello che voleva ottenere per poter dire davvero “ci sono riuscita” senza che siano altri a confermarlo o riconoscerlo. Nel suo sguardo ha energia, traspare chiaramente la forza dell’animo di chi non si arrende e combatte, felice di farlo e di sfidarsi sempre.

A monte del lavoro finale, non ci sono prove, né il flashmob è stato ripetuto più volte per poter selezionare le scene migliori. Ruvo non è diventata un set cinematografico: è stata la scena e insieme la spettatrice stupita e presa in contropiede di una performance inedita e senza eguali.
Daniela Raffaele ha spiegato alle donne cosa voleva che facessero, come dovesse svolgersi la scena, quale successione di azioni e quale sequenza di immagini avrebbero dovuto esserci e quali fossero i messaggi che tramite esse intendeva veicolare.

“Io stessa sono rimasta molto meravigliata dal risultato finale ottenuto. Non avendo avuto prove, temevo che qualche donna non riuscisse a lasciarsi davvero cadere a terra, che qualcuna rimanesse in piedi, o che il silenzio non potesse essere così intenso come invece l’avevo immaginato io nel momento in cui ho concepito l’idea e il soggetto. E poi l’urlo: anche per quello nessuna prova, non pensavo che potesse essere talmente potente e carico del significato che io gli attribuivo nella mia mente. Un conto è immaginarle, le cose; un altro è farle e vedere che riescono esattamente come le si è immaginate”, continua a raccontarmi l’artista performer.

A dare il proprio contributo alla realizzazione del flashmob, sia sulla scena, sia nella fase di preparazione, gli studenti del liceo linguistico Guido D’Arezzo di Ruvo di Puglia e quaranta donne di età compresa tra i quindici e i quarant’anni, tra cui alcune allieve delle scuole di danza Dancing Queen e Micheal Jackson A.S.D. Il maestro di danza di quest’ultima, Valerio Gattulli, ha poi vestito i panni dello stalker. Lo stesso slogan Giù le mani dalle donne è stato scelto all’unanimità dagli alunni del liceo linguistico Guido D’arezzo: fra tre frasi scritte su una lavagna, nessuna esitazione. A dipingere la scritta, poi, solo alunni, a lavorare lì per le loro compagne.

Un’idea, quindi, quella del flashmob, che ha coinvolto una pluralità di soggetti differenti e ha realizzato un dinamismo di energie e collaborazioni, partendo semplicemente dalla volontà di realizzare una performance mettendosi in gioco totalmente e in una nuova forma, quella di performer appunto, una veste che apparirà nuova e inaspettata per chi l’ha sempre conosciuta come pittrice. Ho chiesto a Daniela Raffaele il perché di questa nuova identità.

“Il dare mi fa stare bene”, mi spiega. “Sono stata letteralmente rapita dalla bellezza della frase Ho un dono e ve lo dono, è un messaggio forte e sublime insieme. C’è molta superficialità, se ci guardiamo intorno, a dispetto dell’immagine sociale che vogliamo dare. Per questo ho deciso di mettere l’arte, la mia arte, a disposizione di tutti per denunciare le brutture che ci circondano. È un percorso che mi fa bene e fa bene. Divenendo una performer, non rinnego affatto quello che sono stata fino ad oggi: nasco come Clitorosso e rimarrò sempre Daniela Raffaele Clitorosso. Però ora voglio utilizzare la mia arte per smuovere canali interiori che ci animano dentro, voglio sviscerare nodi che tutti quanti abbiamo. Ognuno ha bisogno di guardarsi dentro, di conoscersi, di prendere forza dentro di sé e andare oltre fino a liberarsi dei lividi dell’animo, delle frustrazioni accumulate nel tempo, delle sofferenze,  per rinascere finalmente a vita nuova.”

Il suo racconto procede spedito, i risvolti di questa decisione si evincono pienamente nel lavoro realizzato. Oltre al suo animo, grazie al suo esporsi, anche altri iniziano a muoversi e smuoversi: è ciò che si deduce quando mi racconta del coinvolgimento emotivo delle donne partecipanti. Molte le hanno dichiarato di essersi immedesimate molto nel ruolo che lei ricopriva, ovvero l’oggetto delle attenzioni e delle violenze dello stalker, immagine rappresentativa dell’uomo che intende controllare e dominare la donna, sottomettendola, abusandone e usandole violenza. Molte di loro, poi, soprattutto le più giovani, le hanno persino confidato di aver vissuto le sue emozioni portate in scena con intensità impressionante. Questo perché loro tutte si sentivano chiamate in causa: direttamente o indirettamente, avevano fatto esperienza di maltrattamenti fisici o psicologici  da parte degli uomini sulle donna, perché gli era sfortunatamente capitato, o perché capitato a una loro amica, a una conoscente. Tutto ciò a dimostrazione del fatto che la solidarietà tra donne nasce dal coraggio della condivisione e si manifesta tramite la sintonia, elementi fondamentali che hanno permesso alla performance un risultato ottimo sin dalla prima battuta. La resa scenica di tutto ciò, della denuncia così come della solidarietà femminile e del reciproco sostegno psicologico, è data dalla stretta di mano delle donne, il loro farsi cerchio che si restringe sempre più attorno allo stalker che esercita la propria violenza sulla donna mascherata, Daniela appunto, dopo che lei ha emesso l’urlo struggente eppure necessario perché qualcosa cambiasse.

La stessa maschera che indossano tutte simboleggia l’essere unite e uguali, indistinte di fronte all’orrore che riguarda alcune ma ci vede tutte coinvolte come identità di genere e identità sociale. L’idea nasce da Daniela Clitorosso Raffaele e coinvolge Michele Pinto, regista di Ruvo. È lui a spiegarmi altri aspetti tecnici e altre rese sceniche proprie di questo flash mob. Michele Pinto sottolinea come esso sia cross-mediale per i due stili di comunicazione adottati. “Il primo è dato dall’uso del flashmob come strumento di mobilitazione sociale sempre più utilizzato; il secondo è dato dal fatto che, per la prima volta in assoluto, il protagonista di una webfiction (Bishonnen, ndr) presti il proprio ruolo ad un progetto di denuncia quale il nostro lavoro è.”  Un lavoro, dunque, che si pone al pubblico con una valenza plurima, sia per i contenuti, sia per il messaggio forte che si apre a molteplici interpretazioni. Perché questo flashmob non dice semplicemente “ci siamo anche noi, con il nostro contributo, nella lotta contro la violenza sulle donne”: no, è di più, molto di più. Denuncia e sensibilizzazione sociale; responsabilità collettiva di fronte al dramma dei singoli; dichiarazione di presenza e attenzione alle realtà che esistono anche se nascoste o omesse;  unità e solidarietà, supporto per chi non sopporta più nel silenzio.

“Le maschere”, spiega Michele Pinto, “hanno qui un uso antropologico, teatrale e metaforico, rappresentano il concetto pirandelliano di Uno, nessuno, centomila. Quelle delle donne sono bianche, candide, a rappresentare l’innocenza rispetto a tanti crimini efferati nei loro confronti; sono tutte uguali perché sottolineano come non vi sia differenza tra le donne, ma solo nelle reazioni degli uomini a certe situazioni. Per il personaggio maschile, invece, ho deciso di ricorrere al protagonista di Bishonnen perché di stalking parla la mia webserie. Ho voluto fortemente che ci fosse un elemento rosso per ogni donna, poi, nello specifico il foulard, in segno di accusa alle restrizioni cui sono sottoposte alcune donne in diversi paesi del mondo.”

La collaborazione artistica tra Daniela Clitorosso Raffaele e Michele Pinto nasce già prima di questo lavoro, con la realizzazione del video Happy. “Il primo realizzato da un piccolo comune, nota bene” sottolineano entrambi, all’unisono. “Tutti gli altri video erano stati girati nelle grandi metropoli” riprendono a raccontarmi, “noi siamo stati gli apripista di quel fenomeno che poi ha investito tutti gli altri paesi. Le riprese son durate una settimana, abbiamo lavorato intensamente e in maniera costruttiva all’interno di una neonata squadra che ha visto protagoniste molte associazioni ruvesi e singoli cittadini.” Una notte insonne per Daniela, il video Happy di Catania in homepage, l’idea, la proposta per realizzarlo a Ruvo di Puglia sbandierata in un post. Il primo a rispondere, Michele Pinto. È fatta. Parte tutto così, come sempre: a caso, ma no per caso.

Subito il video Happy di Ruvo di Puglia diventa un successo mediatico, addirittura internazionale, con molti complimenti che giungono persino dall’America, rendendo omaggio alla bellezza di questo video comparato persino a quello di Amsterdam e che porta il nostro Paese a spopolare sul web per iniziativa e bellezza artistica e architettonica. Il riscontro dall’estero diventa la maggiore gratificazione, perché significa aver fatto un buon lavoro per sé e per tutta Ruvo, che così acquista una notevole visibilità. Ma subito nasce la nuova idea del flash mob. “Perché noi non siamo solo quelli di Happy, noi siamo quelli dell’arte”, butta giù duro Daniela.

E l’arte, si sa, è capace di trasversalità e dinamicità, pluralità di forme e risvolti come solo l’animo umano e la natura possono essere, perché ne è sua manifestazione ed espressione. Non solo: l’arte è anche attribuire significati nuovi a opere già realizzate laddove non ve ne era nemmeno intenzione o consapevolezza. Come nel caso della mia interpretazione delle due figure maschili che srotolano, dal balcone del Palazzo di Città, il telo recante la scritta “Giù le mani dalle donne”. Personalmente vedo in quelle due figure maschili che hanno accettato il ruolo l’emblema del cambiamento. Molto spesso gli uomini, pur condannando gli episodi di violenza sulle donne, non si sono mai espressi o mai esposti per combatterla e per fronteggiare chi la usasse. Questo per restrizioni culturali, ma non solo. In quel gesto voglio vedere il risultato vero dell’emancipazione femminile cominciata come lotta decine di anni fa: ovvero l’essere tutti uguali, indistintamente tutti soggetti sociali da tutelare di fronte al male e agli abusi. Un annientare la diversità uomo/donna per riconoscere il dolore della situazione e tendere la mano a tutela e protezione dell’identità personale quale ogni uomo e ogni donna è. Vedo e voglio vedere tutto ciò, in tutti i contesti del vivere quotidiano.

 

© Luana Lamparelli 

Intervista pubblicata il 17 Aprile 2014 nella rubrica “Ars Artis”.

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