Se nel cuore della notte, ricordando un pomeriggio.

Houston, dove è cominciato tutto ciò?

L’idea di parlare a un pubblico, intendo: a persone che non posso guardare in faccia, come invece accade solitamente, e di estendere quel che penso e che dico, partendo dal presupposto che nessuno possa esservi interessato, al di là di chi magari già mi conosce.

Le presentazioni dei miei romanzi mi regalano sempre grandi emozioni: perchè rivedo gente che non vedo da tempo e che vi partecipa per salutarmi, vedo i lettori, li conosco, gli stringo la mano. Parlo finalmente con chi mi segue, che vien lì per ascoltare quel che ho da dire. Son tanti, ogni volta lo scopro con sorpresa. Ma io perchè scrivo un blog, un sito internet? Avevo promesso a me stessa che non l’avrei avuto mai, perchè oggigiorno scrivono tutti, siamo nell’era dei social dove si fa a gara a chi fa prima click. Però poi ho deciso di cambiare idea.

Tutto iniziò un pomeriggio dello scorso anno. Era un sabato di maggio, avevo del tempo libero, una casa tutta per me. Andai a far la spesa, in quel pomeriggio che non scoppiava ancora di caldo insopportabile. Mi piace far la spesa: scegliere gli ingredienti e i prodotti, andare dai negozianti di fiducia, scambiare una chiacchiera cortese con loro, guardare, sorridere, ascoltare; aggirarmi per gli scaffali curiosando tra le spezie e tutto quello che non conosco. Quel pomeriggio lì mi chiesi: “Cosa non prepari da tempo?”. Una domanda, alle volte, può essere un varco, uno spiraglio che pian piano si allarga e ci fa guardare a qualcosa che avevamo dimenticato. Da tempo non preparavo cene, di quelle dove prepari antipasti, primi, secondi, e così via, con candele, musica in sottofondo, risate e chiacchierate degli invitati che si fanno più distese man mano che il vino diminuisce. Dolci. Soprattutto da tanto non preparavo dolci. Un tempo ne preparavo moltissimi: per la colazione, soprattutto. per la domenica, per compleanni e feste in casa. Era un bel modo di prendersi cura di sè e di festeggiare momenti che ritenevo importanti. Poi tutto finì. Finì e io cambiai tutto della mia vita, prima di tutto il mio status, con un colpo che lasciò di stucco. Chiudere una storia talvolta,  piuttosto che un voltar pagina puro e semplice, è un voltare le spalle a sé stessi, alla parte di noi più legata a quello stile di vita che (volenti o nolenti) dobbiamo cambiare. Per la prima volta nella mia vita, spaventata e determinata insieme, scegliendo di chiudere quella storia decisi quel che volevo per me, tra pagine nuove in cui io stessa non sapevo bene chi fossi.  Dovevo conoscermi e scoprirmi, misurarmi e confrontarmi, non solo con nuove persone, nuovi colleghi, nuovi amici, ma anche e soprattutto con le mie ambizioni di sempre, con i sogni sempre accantonati perchè c’erano mille altre cose da fare, con le mie capacità e i miei limiti, per lavorare davvero su me stessa. Ho cambiato paese: la scelta più celere per scoprire le risposte autentiche a tutti gli interrogativi che mi ponevo. La scelta più ardua anche per non avere nessuno su cui contare: se dovevo sbagliare, volevo farlo con la mia testa; se dovevo imparare in fretta, volevo sbagliare e porvi subito rimedio, senza poter contare su nessuno. Una sfida. A tratti mi è sembrata enorme e insormontabile. Poi, col tempo, pian piano, tutto si è ridimensionato. E’ stato in quel periodo che mi è giunto un invito: scrivere un racconto su commissione. Avevo i tempi stretti e il lavoro a scuola mi teneva in un’aula anche fino a sera. Avevo però anche chi non mi permetteva di lasciarmi sfuggire quell’occasione: era una donna che insisteva, a scrivere quel racconto dovevo essere io. Allora non lo sapevo, ma quello era l’inizio di tutto. Da lì è nato Giardini senza tempo. Mentre lo scrivevo, conoscevo nuova gente del paese in cui mi ero trasferita. Mentre lo rivedevo e lo ultimavo, iniziavo a salutare la gente per strada e a fermarmi con loro per un saluto più cordiale. Mentre lo pubblicavo, in piena estate, redigevo una raccolta di poesie e iniziavo a mettere ordine tra i racconti del secondo, a prendere appunti per il terzo, e poi ancora altri appunti per un nuovo… Ho perso il conto delle storie che ho da scrivere, così come delle serate e dei viaggi. Ho perso il conto delle presentazioni che ho già tenuto, di quelle che son saltate per motivi logistici, delle mani che ho stretto con l’umiltà di chi deve dire prima di tutto grazie. Ho perso il conto dei sorrisi, delle parole belle dettemi guardandomi negli occhi e di quelle che mi son state scritte tramite e-mail, delle risate che mi son fatta ironizzando con i miei amici sui personaggi inventati e le loro storie. Insomma: mentre lavoravo per dare avvio a un nuovo percorso, la mia vita cresceva, prendeva una nuova forma, si riempiva di colori. Vedi, Houston, realizzai tutto ciò l’anno scorso, mentre mi aggiravo tra gli scaffali di un supermercato. Con quella sola domanda, “Cosa non preparo da tempo?”, mi resi conto che avevo fatto molto per me stessa: la mia qualità della vita era notevolmente cambiata. Adesso avevo realizzato il sogno di pubblicare un libro e un altro di lì a breve sarebbe stato pubblicato, in molti lo aspettavano persino. Avevo feste, cene, serate, amici a volontà in ogni paese, e questo per me era davvero sorprendente se penso alla ragazzina timida che ero. Avevo una casa tutta mia che avevo arredato da sola, senza dover scendere a stupidi compromessi con una persona che voleva vincere a tutti i costi imponendosi. Avevo persone sincere su cui contare seriamente, capendo così che da soli ce la facciamo benissimo, ma in compagnia è meglio. Cosa però non facevo più, cosa avevo perso realizzando quella versione autentica di me, smessi i panni della figlia perfetta e della compagna che non smetterebbe mai di essere amorevole benchè non ne valga davvero la pena? Non cucinavo più dolci per la colazione, non mettevo più fiori nei vasi, non curavo più le piante in veranda, non trascorrevo piacevoli ore del pomeriggio leggendo, non dipingevo più, non disegnavo più nemmeno parlando distrattamente al telefono. Non trascorrevo più tempo in casa, presa da tutti gli impegni fuori, e scoprivo, riflettendoci, che tutto ciò mi mancava.

fiori

Tornando a casa con la spesa, mi son resa conto che avevo messo da parte molte cose del mio passato per far spazio alle nuove, ma crescere non significa perdere una parte di sé: significa migliorarsi, significa amarsi di più e meglio di prima. Dovevo ricominciare. Ricominciare dal ciambellone per la colazione, ricominciare a curare quella parte di me che un tempo ricorreva alle cose semplici per ritagliarsi il suo angolo in una vita di coppia non soddisfacente. E dovevo scriverlo. Scriverlo non per me, ma perchè potesse essere d’aiuto per tutti quelli come me, uomini e donne, che a un certo punto hanno guardato il volto della persona che amavano e hanno deciso di non mentire più a sè stesse negando l’evidente: ovvero la mancanza di reciprocità. Ho deciso di farlo perchè dopo una storia bisogna ricominciare, e non solo ripartire da zero. Significa che dobbiamo ricostruirci la nostra quotidianità, fatta della nostra sola presenza, creando nuove abitudini e nuove tradizioni. Per far questo abbiamo bisogno di tempo e spazio, sentimentalmente dico. E poi, quando abbiamo nuovamente creato i nostri equilibri, dato spazio a quello che di noi avevamo messo da parte per realizzarci in stupidi ruoli preconfezionati che non ci determinano nella nostra unicità, quando finalmente abbiamo creato una nuova e solida autostima, dobbiamo ricominciare a fare quello che facevamo e che ci faceva stare bene, che ci rendeva felici in modo del tutto diverso. Come preparare torte, per esempio. Perchè se un pezzo della nostra vita è chiuso, quello che allora facevamo siamo sempre noi, e sarebbe un peccato sprecare quelle capacità, non saremmo completi se non unissimo il nuovo traguardo coi vecchi successi. Allora mi promisi, in quel pomeriggio, tornando a casa con le buste della spesa: “Ricomincio da dove ho finito”. Una volta a casa, poi, fu la volta della crostata: la farina, le uova, il burro, il tavolo pieno degli ingredienti, la pasta frolla che prendeva forma sotto le mie dita. E mentre era in forno, allora presi anche a disegnare. Una cosa piccola: in fondo è sempre dalle cose piccole che si inizia. Che si incomincia, che si ricomincia.

ricomincio da dove ho finito

 

Certe storie non sono per sempre, le abitudini d’un tratto finiscono in frantumi come vasi di cristallo che si schiantano sul pavimento. Vanno in mille pezzi, e con essi le nostre vite. Lo smarrimento è inevitabile, ma non dobbiamo scordarci che siamo degni d’amore sempre e che l’amore esiste già nelle nostre vite, esiste sempre intorno a noi. Se non è quello di un compagno o di una compagna, non è una tragedia: sarà l’amore di tutte le persone a cui sapremo sorridere, incoraggiandole; sarà l’amore di tutte le persone che aiuteremo, con gentilezza; sarà l’amore che daremo incondizionatamente e che incondizionatamente riceveremo da tutti gli amici cari, quelli veri, quelli di una vita, da quelli nuovi che verranno. Le amiche prima di tutto mi hanno fatta sentire amata, dopo il mio voltar pagina. Mi hanno insegnato che la prima persona fra tutte quelle che possono darci amore e che meritano il nostro amore è esattamente quella che guarderemo nello specchio svegliandoci al mattino. Se l’avessi imparato prima, quella storia in cui ero sola a lottare per una coppia che non esisteva probabilmente sarebbe finita molto prima. Dovrebbero insegnarci l’amore per noi stessi, invece di inculcarci che pensare bene a sè è egoistico. Se avete smesso di volervi bene, di dedicare il tempo anche ai piccoli scarabocchi o alla passeggiata al parco,di tenere per mano quello che facevate per far spazio a nuove sfide e nuovi successi (e questo significa anche insuccessi, sappiatelo), ditelo anche voi: Ricomincio da dove ho finito. E fatelo.

Houston, per questa volta non abbiamo un problema: il buon senso è salvo. In fondo, ci siamo salvati. Siamo stati alieni, trovandoci smarriti su questa Terra, tra ciò che credevamo di conoscere e pensavamo ci appartenesse, ma per fortuna ci siamo riscoperti come suoi abitanti. Per una volta, con buon senso.

Adesso andiamo a dormire: sono le 2.00 del mattino. Ecco cosa accade se nel cuore della notte, ricordando un pomeriggio.

Per cena che ne dici se invitassimo Orlando e Astolfo, domani?

 

Foto, disegni e testi: ©Luana Lamparelli

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La cultura è una borsa fashion, oggigiorno.

Houston, abbiamo un problema!

Uno grave, gravissimo! Di inadeguatezza, direi. Disadattamento, direbbe un esperto del settore. (Uno psicologo, per esempio. Ma anche un’esperta improvvisatasi profeta della moda. Lascialo dire a me, che sono educatrice, una sorta di “terra di mezzo” tra la fauna e quelli che nella fauna sanno distinguersi. E qui cito anche Jep Gambardella, con il termine “fauna” utilizzato per rappresentare noi uomini. Secondo me ha pure studi socio-antropologici e Sorrentino non ce l’ha rivelato.)

Torniamo a noi, Houston. Il problema è che io non sono patita di moda, tendenza, trend, e roba di questo genere. Sì, non me ne frega niente di cosa si usa, di come si usa, di cosa proprio non può mancare nel guardaroba, e così via. Mi vesto seguendo il mio gusto, questo sì, questo no, questo mi piace, questo si indossa davvero?, ma dai!

Ecco: il problema è questo. Passo più tempo in una libreria, tra i libri, perdendomi. Oppure nelle cartolerie, scegliendo quaderni, matite, penne, temperamatite, pastelli, agende, taccuini. Indecisa tra il primo libro e l’ultimo stretti in mano, cerco di optare per il “terzo che gode tra i due litiganti”, e invece poi finisce che li prendo tutti e tre. Ed è maniacale la mia tendenza ad accumulare libri e materiale per scrivere e organizzare appunti. Se non vado in questi posti qui almeno una volta alla settimana, davvero entro in astinenza. In una boutique, invece, nemmeno decido di entrare. Sono persino due stagioni di saldi che non faccio giri tra negozi a caccia di affari. Semplicemente, se ho bisogno di qualcosa, per una cerimonia o altro, inizio a pensarci a non prima di cinque giorni dall’evento. Se mi piace qualcosa in vetrina, mi fermo per comprarla solo se ho tempo per entrar e provare. Roba di dieci minuti. Chè se no mi annoio e non ne vale la pena. Houston, questo è un problema serio! Persino Astolfo e Orlando scuoterebbero il capo rassegnati, guardandomi in viso senza un minimo di incoraggiamento. Però ho scoperto una cosa figherrima (qualcuno ha già messo il copyright per questo latinismo adattato all’italiano contemporaneo?). E voglio condividerla. Per il bene dell’umanità, della cultura e delle fashion victim. Ho trovato un modo per avere gratis una di quelle borse che tanto vanno di moda adesso: quelle che si tengono in mano, senza manici, senza tracolle. Insomma, quelle che si usano tanto, che vedi nei selfie, o nelle foto fatte appositamente per sembrare che sei uscita vestita così per andare chissà dove, e invece ti sei vestita così solo per trovare l’angolo migliore, trascinandoti dietro uno con la macchina fotografica seria, per scattare la foto e poi correre a casa e condividerla sui social, scegliendola tra i mille scatti fatti in dieci minuti. Non so come si chiami in gergo (tecnicamente), ‘sta borsa qua, ma so che farà impazzire tutti proprio perchè è di tendenza ed è gratis. Eccola, è questa:

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“La cultura è una borsa fashion, oggigiorno” © Luana Lamparelli

 

 

Pensa, Houston: io me la son trovata casualmente in casa, nemmeno mi capacitavo di come una cosa del genere potesse esserci arrivata. Ho pure pensato: “Se la usassi, avrei non solo l’aria da tipa fashion, ma potrei passare persino per una d’avanguardia, e acculturata, e senza nemmeno dover aprire la bocca”. Poi ho capito: era la scatola che conteneva gli ultimi libri che mi son fatta comprare dalla mia manager tramite Internet. Quando ho aperto il pacco, per l’euforia di stringere tra le mani e sfogliare i libri tanto attesi, non me n’ero resa conto! Ma adesso, adesso..! Adesso posso dirlo a tutte: UNA BELLA BORSA DA TENERE IN MANO (anche se poi vi mancherà sempre la terza mano con cui mantenere il cocktail o la sigaretta per fare le fighe ai party), vi arriva a casa gratis, GRATIS! …certo, se acquistate i libri. Se non li leggete, poi, considerate che potete sempre metterli su una libreria e dare un tocco davvero figo alla vostra casa. Certo, se non avete una libreria, la pecca si vede comunque… Potreste sempre metterli sul comodino, o smistarli tra il salotto e il bagno, così, quando avrete degli ospiti in casa, magari maschi radical chic, o gente di destra dalla cultura vera e solida (non di destra a chiacchiere, e sono quelli che io preferisco, premettendo che è solo un’ideologia, perchè oramai la destra e la sinistra sono solo delle astrazioni di cui i politicanti si gonfiano inutilmente), questi penseranno: “Hai capito, la tipa?”. E farete un figurone! (Questo è il mio personale incentivo per farvi comprare libri. Libri in genere, non necessariamente miei. Anche perchè sono solo due quelli che ho scritto fino a ora). Quando poi vi stancate della borsa, nessun problema: o la dipingete, o la rivestite con carta decorativa o tessuto, oppure la gettate nella campana per la raccolta differenziata. (Occhio: quella della carta. Fatevi furbe.) Così sarete alla moda senza spendere soldi, e pure lungimiranti facendo un investimento sul vostro futuro avendo per casa libri. A questo dovrete abbinare la scelta giusta dell’uomo da portare a casa e la lettura strategica almeno (!) del riassunto delle opere scelte su Wikipedia, o dalla mia rubrica “Leggere”, se c’è. E in tutto ciò non posso aiutarvi, eh. Sarete anche attente all’ambiente e originali per davvero.

Sì, Houston, abbiamo un problema: la cultura è una borsa fashion, oggigiorno. Non solo. Houston, ce ne sta un altro legato a ‘sta vicenda: le fashion blogger non mi piacciono. Mi annoiano. Alle volte, però, mi fanno ridere. Tanto. Purtroppo.

Saluta Astolfo e Orlando con la manina?

 

 

Testi e foto: © Luana Lamparelli

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Per cominciare: mi piace Manara. Assai.

Una copertina, un libro.

Foto: © G.L.B., che possiede la copia del libro in questione

 

Un libro che conoscevo bene. Il vantaggio di aver lavorato come libraia.

– Quello è bellissimo! – dico.

– Anche a me piace molto. Trovo strano che possa piacere a te. Sono tre episodi veramente maschilisti e a tratti umilianti per voi donne. Comunque come disegna i culi manara, non li disegna nessuno – mi risponde.

A rispondere è un uomo, ovvio. Un restauratore, pittore, artista di famiglia, più precisamente. Perchè questa mia passione per il tratto di Manara e dell’uomo che è?

– Sai, è sempre bello vedere quanto il raggio d’azione degli uomini (di alcuni uomini!) sia limitato al proprio ego, per noi Donne! E Milo Manara, in questo e nel dimostrarlo, è un Grande! Il suo tratto, poi, è unico e inconfondibile; è il segno della paternità delle sue opere ancor prima che si legga la sua firma. Manara stesso ha ammesso di disegnare la donnina, la femminuccia piuttosto che la donna di un certo spessore: esattamente quello che molti uomini che se la menano (credendosi chissà chi) scelgono nella propria vita, come compagna. Io sono follemente innamorata dell’ironia della vita, per questo amo Manara. Oltre che per il grande omaggio che lui fa alla sensualità femminile e ai capelli ricci.

– Luana, concordo pienamente con quanto detto. Personalmente credo di avere la mia parte femminile abbastanza pronunciata, forse per questo amo le donne dal forte carattere e dalla personalità spiccata.

– Lo so! Per questo non ho esitato a dire quello che penso.

 

Foto: ©LuanaLamparelli
Foto: ©LuanaLamparelli

 

Ecco, Houston, ecco il primo problema: gli uomini che amano le donne forti, determinate, intraprendenti, sono pochi. I più le temono, perchè in verità vogliono essere loro le “prime donne”. Il fatto che in una coppia ci possa essere, poi, uno che fa a gara con l’altro per primeggiare mi fa davvero una grande tristezza. Magari questi ominicchi qui temono anche che le donne forti siano arpie, e si privano così di esseri angelici dotati di meravigliosa vitalità, e fedeltà, e sani principi, e persino molto di più di un conto bancario proprio!

 

Immagine dal web: © Milo Manara

 

Dalla mia ho la grande fortuna di conoscere uomini straordinari, che amano davvero e incondizionatamente le donne, che le stimano e le rispettano. Uomini intelligenti, genuini, con cui puoi parlare e confrontarti. Uomini che non stanno lì a vedere se sei maschio o femmina, ma che valutano la persona che hanno di fronte. Esattamente come me. Senza restare preconfezionati nelle “logiche del mercato”, come fossimo noi donne prodotti nati per “essere consumati”. Per fortuna c’è ancora tanta gente dotata di buon senso, capace ancora di parlare liberamente e in modo intelligente, con predisposizione costruttiva, in una sinergia di idee e pensieri che fa ritrovare sempre il piacere del confronto, il piacere di conoscersi, il gusto di parlare.

Sento parlare troppo, e spesso troppo a vanvera, della parità dei sessi, ma siamo sicuri di perseguirla e viverla nella nostra quotidianità? A parer mio, anche il voler essere sempre forti e incontrastati di alcuni uomini è violenza bella e buona contro le donne. Di uomini che amano il confronto alla pari, capaci di riconoscere senza esitazione alcuna la maggiore validità delle idee dell’interlocutrice che hanno di fronte rispetto alle proprie, e che in virtù dell’onestà intellettuale fanno un passo indietro, di uomini così per fortuna ce ne sono parecchi, è da questa consapevolezza che bisogna partire per fare davvero guerra alla violenza contro le donne. Ci vogliono uomini perchè noi donne vinciamo! E noi stesse dobbiamo ammetterlo. L’unione fa la forza! Il movimento femminista secondo me, a un certo punto della storia, ha solo complicato le cose e compromesso gli equilibri cui auspicava. Perchè non si tratta di imporsi, si tratta di convivere: con le diversità, che sono poi le specificità; con la consapevolezza che le relazioni d’aiuto sono importanti e fondanti per una buona società. Con la consapevolezza che affermare “Oggi sono troppo stanca, puoi cucinare tu per favore”, oppure “Ho bisogno del tuo aiuto per risolvere questo problema”, non sono sinonimo di sconfitta, ma di vittoria: la vittoria del buon senso sulle guerre inutili.

Ecco, questo penso.

Il problema però rimane. Resta sempre lì quando vedo i sorrisini ebeti stamparsi su certe facce dichiarando che adoro Manara. Problema di retaggio culturale, cognitivo o di ignoranza di quegli uomini? Spesso il vero problema è di consapevolezza di sè, di fiducia, autostima e buon senso, da parte di chi si ferma solo su quello che ascolta in pochi istanti. Anche un problema di tempo, sì: in una società come la nostra, sempre più spesso si dimentica di dare e darsi la possibilità di conoscersi davvero, capendo nel tempo e col tempo il senso e il significato autentico e soggettivo di alcune affermazioni strettamente personali.

Sì, Houston, abbiamo un problema. Uno per cominciare, si sa. Son partita da Manara per giungere al tempo che non vogliamo concedere, che non vogliamo concederci, passando per il ruolo della reciprocità di relazione uomo-donna nella costruzione di valore della nostra società. Ho usato parole semplici, immagini facili. Magari, chissà, non sono nemmeno riuscita a trasmettere davvero tutto quello che intendevo dire. Faccio spallucce: almeno il fatto che esiste un problema è chiaro.

Che peccato, Houston, che il tuo Apollo 13 abbia fallito! Ci fosse almeno un altro Astolfo per recuperare il senno dei più, potremmo tutti tornare ai nostri posti di combattimento senza perderci in chiacchiere. Beato Orlando che impazzì d’amore per Angelica (la prima che dimostrò la vera faccia di quelle che sembrano tutte garbo e pudicizia e che poi tradì il suo uomo con un altro, confermando così quel che io penso: ovvero che il nome non fa la persona), beato lui che impazzì ma rinsavì grazie ad Astolfo volato sulla Luna per recuperargli il senno, così da tornare a combattere per Carlo Magno.

Ehssì. Beato lui, poveri noi.

Immagine dal web: © Milo Manara

 

 

Testi: ©LUANA LAMPARELLI

Testo e immagine di copertina: ©LUANA LAMPARELLI

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UN PAESE CI VUOLE. DALLA PRIMAVERA A SETTEMBRE, IL NUOVO LAVORO DI DIMARTINO.

A dicembre parlavamo del nuovo album, previsto in uscita per la Primavera. Puntuale, è arrivato: “Un paese ci vuole” è il titolo del nuovo disco di Dimartino, il gruppo musicale del cantautore siciliano Antonio Di Martino, sempre più presente e affermato sulla scena della musica pop nazionale. La voce pulita e impeccabile, di quelle che non steccano mai, come diciamo noi; i testi fuori dall’ordinario, evocativi per le immagini concrete di cui raccontano e in cui a chiunque capita di perdersi, passeggiando e osservando la vita muoversi sotto i propri occhi, tra scene di vita ordinaria intrise di sentimenti e luoghi permeati di ricordi e speranze: è Antonio Di Martino. Oramai le interviste con lui sono una bella abitudine che si rinnova. Dopo il concerto, come di consueto, dopo la sua rituale: “Che ne pensi? Ti è piaciuto come abbiamo suonato?”, arrivano le mie domande. Intervistato già nel 2013, questa volta la nostra chiacchierata è uno slalom a rallenty tra alcune sue citazioni, tratte dai brani del nuovo disco e dei precedenti, e la sua vita vera, quella che li ha ispirati; tra considerazioni sul mondo e consapevolezza ironica su politici e artisti.

 

Anche questa volta, come tutte le volte, avete cantato dal vivo. Canterai mai in playback?

Io spero di non doverci mai arrivare. Non ci penso proprio. In passato mi è stato chiesto, ma io ho rifiutato. Per me è una cosa improponibile, impensabile. Cantare in playback è una cosa che non si può sentire.

 dimartino in concerto

 

“C’è un mostro in cucina”: canti così in “Case stregate”. Mentre la cantavi, sembrava che pensassi, ricordassi o rivivessi momenti veri, tragedie vissute.

In realtà non erano riferiti a me. Erano riferiti a una casa stregata che esiste in un paese vicino al mio (Misilmeri, ndr), legata a una leggenda che poi si è rivelata solo una leggenda e niente più. Il marito uccise la moglie per problemi di fertilità, perché pensava che non fosse fertile. E quindi c’era il mito di questa casa stregata, posseduta dal fantasma.

 

L’interpretazione però era intensa, molto sentita, molto viva.

Può sembrare (risponde  e intanto sorride). In realtà per molti miei testi mi piace l’idea che, raccontando storie di altri, poi si possa pensare siano mie, ma questo solo perché costruisco su quello che mi raccontano.

 

“E se domani cambierò vestiti, tu riconoscimi dagli occhi”: è l’invito che rivolgi nel brano “Calendari”. Un invito che sembra voler tranquillizzare rispetto ai cambiamenti a cui la vita inevitabilmente ci conduce. Basta davvero uno sguardo per riconoscersi?

Riconoscersi significa che già ci si è conosciuti prima. Quindi sì, secondo me sì. Molte volte, quando c’è gente che va via da casa propria, che va  in altri posti a vivere, c’è sempre quest’idea che a un certo punto l’altro possa scordarsi di te. In realtà io penso che sia difficile non riconoscersi:  appena ci si guarda, ci si deve per forza riconoscere. Se ci si è conosciuti davvero, sì, basta decisamente uno sguardo per riconoscersi, non si può sfuggire.

 

A proposito di riconoscersi, se ti fermassi un attimo guardandoti allo specchio, il Dimartino di oggi, all’Antonio Di-spazio-Martino di cinque anni fa, cosa gli direbbe?

In realtà, siccome Dimartino come progetto è nato in un momento in cui io già ero grande –  avevo 27 anni quando è stato registrato il primo disco-, e prima ne avevo incisi altri per altri progetti, non la sento molto la differenza tra Antonio Di Martino e Dimartino, sono io e basta.

 

Ok, però ti capita di guardarti negli occhi attraverso lo specchio e dire, non dico “Ce l’ho fatta” – perché nel mondo dell’artista è un crescendo, uno vuol sempre evolvere, in un certo senso rivoluzionarsi costantemente -, però qualche parola di incoraggiamento,  la famosa pacca sulla spalla e dire: “Bravo, Antonio, ci sei riuscito”?

Io non l’ho mai fatta ‘sta cosa qua, mi riesce veramente difficile perché non riesco mai a vedermi arrivato a un punto. Vedo la mia vita artistica sempre in continuo cambiamento. Per me è  sempre una evoluzione. Ci vuole coraggio per fare una cosa del genere, bisogna essere arrivati a un livello di consapevolezza di sé stessi molto alto per poterla fare. Io probabilmente non ce l’ho perché dentro magari sono molto debole da questo punto di vista.

 

Come sono nati i brani di questo nuovo cd? Quali sono stati i tempi di lavorazione?

Ho scritto il disco da Maggio  a Novembre, partendo dalla Primavera fino a Settembre. In modo graduale. Il disco si apre con il brano “Come una guerra la Primavera” e si chiude con il Settembre dei “Calendari”.

Quello è stato più o meno il periodo in cui l’ho scritto, nel 2014. Ho vissuto insieme al disco, in modo graduale. È stato un parto graduale.

 

Durante il concerto hai dichiarato che, dopo aver scritto la canzone “Maledetto autunno”, dell’album “Sarebbe bello non lasciarsi mai ma ogni tanto è utile” (titolo che fa pensare a un omaggio alla regista Lina Wertmüller), non potevi non dedicarne a una “maledetta Primavera”. Cosa sono, metaforicamente per te, le stagioni di mezzo?

Le stagione di mezzo sono dei cambiamenti, dei passaggi, e secondo me sono le stagioni fondamentali. Perché nelle stagioni decise, l’estate o l’inverno, non riesci mai a prendere le decisioni importanti. Almeno per me, le decisioni più importanti della mia vita, – tipo se lasciare una persona o se cambiare casa -, io le ho prese sempre in stagioni di passaggio come la Primavera o l’Autunno. Perché ero molto influenzato dal cambiamento climatico, e poi perché sono stagioni che ti parlano. Le nuvole non sono come in estate o in inverno, ricordano animali, hanno forme strane. Sono stagioni ricche di simboli da interpretare. In Primavera l’erba cambia colore e diventa a chiazze. Quelli per me sono tutti simboli di un mondo surreale, sono simboli che vogliono dirci qualcosa, da interpretare.

 

Gli alberi sono presenti in molte tue canzoni. Come scrittrice, per me, gli alberi rappresentano persone che mi piacciono molto: persone con piedi ben radicati a terra, quindi radici forti, che possono essere le radici dei valori, degli affetti, dell’appartenenza culturale e sociale, mentre invece la testa fra le nuvole, quindi con l’aspirazione continua e costante ai sogni.

Per te cosa sono gli alberi e perché hanno questa presenza massiccia all’interno delle tue canzoni?

 Gli alberi per me sono tutto perchè io sono nato in campagna. Mio nonno, che tra l’altro è ancora vivo e  ha sentito già questo disco, è una persona con cui parlo spesso, mi ha insegnato ad amarli. Lui ci parla proprio con gli alberi. È talmente attaccato alla sua campagna, che gli alberi per lui sono come i suoi figli. Li riconosce. Sa tutto di ciascun albero, quando li ha piantati e quanti anni hanno. Si dispiace quando ne muore uno. Di recente in campagna da noi è morto un albero di noci, aveva cento anni, e per mio nonno è stato come perdere un figlio. Da lui mi viene questo amore per gli alberi. Per me gli alberi sono come persone, li vedo proprio così, li abbraccio anche ogni tanto.

 

…E so che fa bene abbracciare gli alberi. “L’isola che c’è”, recita un tuo brano. Per come l’ho vista io, l’ho interpretata un po’ come una dissacrazione dei luoghi comuni, quei luoghi/non luoghi, che tanto piacciono ai trentenni di oggi, eterni Peter Pan che non vogliono mai fare scelte ma continuare a sognare. Tranne alcuni casi in cui le scelte legate ai propri sogni sono molto responsabili e comportano impegno e sacrifici. Potremmo sintetizzare che l’isola che non c’è è l’isola dei sognatori che non concretizzano. Qual è, per Antonio Dimartino, invece, l’isola che c’è?

Per me l’isola che c’è è l’isola che vedono i migranti in questo periodo storico, quando sono in alto mare, sul gommone, e scorgono l’orizzonte.

E’ come ribadire che la gente in mezzo al mare vede l’isola e la riconosce come un porto sicuro.

In questo momento, scrivere una canzone come quella, per me significava ribadire l’esistenza di un paese per eccellenza che è l’isola con dei confini precisi.

Più che un’isola che non esiste, legata più a un unico fine, mi piace ribadire l’idea che l’isola c’è e là la gente ci arriva, l’isola c’è tutte le notti, e c’è chi non ci arriva, magari la vede solo da lontano.

E soprattutto poi mi piaceva sottolineare  il fatto che alla sera non puoi più lasciare l’isola, perché se il traghetto è partito, tu rimani là, e tutto quello che è successo durante il giorno, rimane anche la notte, se non se n’è andato.

 

Ci si può perdere davvero cercando la felicità?

Ovvio. Se non ti perdi, non la trovi. Penso che per trovare la felicità, uno si deve perdere. Altrimenti non potrà mai trovarla.

 Ma quando dici “perdersi”, in realtà, cosa intendi?

Perdere le coordinate di spazio e di tempo. Dimenticarsi dove ci troviamo e che ore sono.

Magari quello è un modo per trovare la felicità: perdere qualcosa per trovare qualcos’altro.

 

E pensi che nell’accezione da dare al verbo “perdersi” possa essere inteso, oltre alla dimensione spazio-temporale, anche la percezione di una dimensione di sé, quindi perdere i sogni e i desideri per un attimo, lasciarsi andare al fiume che inevitabilmente ci travolge nel fluire della vita, senza più avere le coordinate di quello che avevamo progettato?

Mi faceva ridere, una volta, quello che disse una bambina: “Vorrei una cartina geografica per perdermi”.

Noi oggi sappiamo sempre dove siamo, quello che  sta succedendo attorno a noi, è impossibile non saperlo. Per cui la felicità oggi è difficile da trovare per questo motivo: siamo troppo consapevoli di noi stessi, ognuno di noi è troppo consapevole di esistere, di essere in questo periodo storico, in questo momento sociale, di credere in un partito, di appartenere a un contesto sociale preciso.

Bisognerebbe riuscire a non pensarci più per un po’, riuscire a spersonalizzarsi in un certo senso.

 

Quando scrivi, componi, la tua vita come si stravolge? Tipo: nel picco del lavoro dormi meno, stravolgi i ritmi, non dormi affatto?

In realtà la mia vita è sempre così (e ride divertito, ndr) perché è difficile che io non pensi a qualcosa da scrivere. Poi non significa che lo scriva.

L’idea che io sia qui, ora, per esempio, e che  possa avere uno spunto per scrivere qualcosa, mi piace. Non so se poi lo scrivo davvero, però l’idea di poterlo fare, di poter dire a me stesso “Adesso scrivo” mi piace.

 

“Gli artisti sono tipi strani”, solitamente si dice. Tu cosa ne pensi?

Mah, non credo.

 Considera che, molto spesso,chi pronuncia queste parole è perché si vede molto lontano dal punto di vista non dico biologico, ma chimico e di visione dell’ordinario rispetto all’artista, rispetto a chi è definito artista.

Secondo me è un luogo comune. Ci sono molti artisti che hanno una vita regolarissima, sono sposati, hanno figli, al mattino si alzano sempre alla stessa ora, alle nove si siedono a tavolino, scrivono, e a una certa ora finiscono. Hemingway così scriveva. Oggi non ci credo a questo fatto che dicono che gli artisti sono strani, forse lo erano nell’800, non oggi, rispetto alla società. Ma poi, scusa, a te la nostra società ti sembra tanto normale? Con tutto quello che dicono i politici oggi, per me quelli strani non sono gli artisti. (E qui, inevitabilmente, ridiamo insieme.)

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“Vita nuova”, altra traccia del tuo nuovo disco. Introducendola durante il concerto, hai asserito: “Incontro di emozioni, che finisce sempre con grandi spritz e grandi ubriacate”, raccontando di quando ritrovi i tuoi amici di sempre.

In questi anni, confrontandoti con i tuoi compaesani, ti ritrovi cambiato? Cosa noti di diverso: il loro modo di approcciarti, di guardarti?

In realtà molti miei paesani nemmeno sanno della vita che faccio. Non sento di aver fatto così tanto, di aver riscosso così tanto successo da poter essere arrivato anche a chi non segue questo genere di musica.

Magari molti che hanno sentito qualcosa, mi chiedono spiegazioni su qualche canzone, però poi non è cambiato niente, al mio paese è sempre tutto uguale.

 

“Mostra il suo documento come un monumento alla vita nuova”, dallo stesso brano. Documento come un monumento: monumento di sé stessi o di cosa?

Mostrano il documento come il monumento di qualcosa che si vorrebbe essere. Il monumento di cui parlo è il monumento che si creano molte persone immaginando una loro vita in un posto diverso. Magari poi è un monumento di sabbia. Io ti faccio vedere, per esempio, che la mia carta di identità dice che io vivo a Manchester, quindi ho immaginato la mia vita come quella di un cittadino di Manchester. Ma in realtà sono di Bisceglie, quindi in realtà il monumento che ti sei costruito è un foglio di carta, non è un monumento con un valore, dentro di te hai delle precise origini che non puoi rinnegare, non potresti mai rinnegarle.

 

“Cercasi anima persa”, dall’album precedente. Cosa è per te “Il tempo per amarmi ancora un po’ ” ?

 L’ho scritta otto anni fa. Il tempo per amarmi ancora un po’ è il tempo che devo dedicarmi.

Io penso che durante il giorno, tra le altre cose che si fanno, bisogna dedicarsi del tempo. Magari anche non facendo nulla, non pensando a nulla, però è necessario. Mi piace l’idea che domani so che, dalle due alle tre, ho il tempo per non pensare a nulla.

Forse è quello il tempo per amarmi ancora un po’.

 

“Un paese ci vuole”, il nuovo disco di Dimartino: una passeggiata intensa, frasi da tenere a mente, considerazioni come spiragli su pensieri più profondi, e più intimi anche. Una passeggiata che inizia tra i colori della Primavera, che letteralmente esplode fuori e dentro di te, anche se “semplicemente arriva”, attraversando l’estate e le notti suggestive, i giorni afosi, i drammi dei nostri tempi, fino all’affacciarsi dell’Autunno, con i pomeriggi tipici della nostalgia settembrina, quando una canzone che giunge da lontano, magari sulle sponde del porto, non riscalda affatto. Piuttosto, invece, induce, come un abbraccio intenso, a lasciarsi andare al pianto che consola un attimo, giusto il tempo di girar pagina, rimboccarsi daccapo le maniche, tornare al solito da fare sempre uguale. In fondo, sono le stagioni e il nostro percepirle a farci carezzare tutto con sguardi diversi.

Non mi resta che augurarvi buona passeggiata, buon tempo per amarvi ancora un po’ e buon ascolto.

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Fotografie e testi: ©LUANA LAMPARELLI

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Amélie Nothomb – Né di Eva né di Adamo

 

 

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Subito dopo “Memorie di una geisha” di Arthur Golden, così come avevo deciso già prima di ultimarlo, ho letto “Né di Eva né di Adamo” di Amélie Nothomb. Alcune voci autorevoli del panorama letterario (ovvero: uno scrittore che è anche un grande intellettuale, mio amico e da me molto stimato), con il dialetto del suo paese aveva risposto alle mie intenzioni in merito: “Ma che cazzo andate leggendo?!”.

Non desisteva quel desiderio in me, così ho cominciato a leggerlo, anche per scoprire come mai tutta quella fretta subito dopo un signor romanzo longseller, “Memorie di una geisha” appunto. Leggendo, ho capito: un sottile filo rosso lega i due libri. Grazie  a quel filo rosso, mi sono ritrovata nuovamente in Giappone, seppure ai giorni nostri (la storia è ambientata negli anni 90 del secolo scorso) e con un’autrice che raccontava un pezzo della propria storia, quando non era ancora una scrittrice ma sognava di diventarlo. Non è mancato nemmeno un ponte chiaro tra i due libri: infatti la Nothomb, a un tratto, parla delle geishe:

 

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In fondo alle cose lancinanti c’è una certa voluttà. (pg. 110)

“Né di Eva né di Adamo” narra l’esperienza in Giappone di Amélie Nothomb, alle prese con le sfide che decide di affrontare e con una storia d’amore iniziata tramite un annuncio per guadagnare qualcosa: si propone come insegnante di francese a studenti giapponesi. Conosce così quello che diventerà il suo fidanzato giapponese, più piccolo di lei di solo un anno. Una storia lineare, vissuta direi più “interamente” che non “intensamente”, perché quello che connota soprattutto la protagonista è la costante presenza a sé stessa. Niente lacrime, niente sospiri da consolare, niente notti insonni, niente dubbi amletici o esistenziali. No, niente di tutto ciò. Una storia lineare vissuta in pieno rispetto di sé da parte di entrambi.

 

Rinri mi prese la mano.

– Passi il Natale con me? – mi chiese.

– D’accordo.

– Dal 23 al 26 ti porto a fare un viaggio.

 

Una storia che fa bene leggere proprio per la sua profonda semplicità, in fondo quello che credo possa far bene a molti di noi. Una non-favola, perchè non c’è una principessa da salvare, eppure c’è un principe premuroso e attento. Una principessa autonoma che ama le scalate in montagna e sogna di diventare una scrittrice, che continua ad andare a lavoro sopportando il mobbing anche se lui le dice che sposandolo non avrà più di questi problemi, perchè non le mancherebbe nulla e provvederà lui a tutto. Non una questione di principi in virtù dell’emancipazione femminile, ma una scelta consapevole e responsabile di chi si vuol essere, senza schemi.

 

Una studentessa canadese mi chiese se avrei sposato Rinri.

– Non ne ho idea.

-Sta’ attenta. Queste unioni generano figli atroci.

(…)

– Non credo che avrò dei figli.

– Ah. E perchè? Non è mica normale.

Me ne andai canticchiando dentro di me la canzone di Brassens: “No, alla gente per bene non piace che / uno segua una strada diversa dalla loro”.

Anche la nostra protagonista Amélie ha un desiderio e confessa:

Un desiderio è tanto più violento quanto se ne ignora l’oggetto. (pg. 150)

Da brava scrittrice sa che:

I peggiori incidenti sono quelli legati al linguaggio. (pg.152)

e da brava scalatrice di montagne nonché professionista di resistenza fisica asserisce una frase che tanto mi piace perchè ne condivido il senso ultimo:

Dicono che fuggire non sia un gesto molto nobile. Peccato, è così piacevole. La fuga dà la più grande sensazione di libertà che si possa sperimentare. (pg. 161)

In questi ultime due rivelazioni di sè ho ritrovato molto di me. Così come anche capisco cosa intenda quando afferma:

Il 10 gennaio 1991, ero un’addetta ai bagni che si era appena licenziata. Il 9 dicembre 1996, ero una scrittrice che andava a rispondere alle domande dei giornalisti. A un livello simile non si poteva più parlare di ascesa sociale, ma di traffico di identità. (pg.166)

Ma torniamo alla storia d’amore. Come finisce questo libro? Finisce in un modo che non vi rivelerò, però che posso definirvi: finisce in un modo profondo. Il senso autentico di quel che si vive è spesso nei fatti, nei vissuti condivisi, e non nelle parole che ci si dice o che si usano per raccontare quei fatti. Perché spesso le parole son menzognere, fatevelo dire da me che le uso per lavorare e che ne sento tante, ma davvero tante, per il mio lavoro di educatrice.

Aveva trovato le parole giuste. Ci aveva messo più di sette anni a trovarle, ma non era troppo tardi. (…) E quando qualcuno mi dice la parola giusta, finalmente divento capace di sentire. (pg. 168)

In questo bel libro per rilassare la mente, oltre a sorrisi divertiti e risate per l’irriverenza di alcuni personaggi, non mancano frasi che sortiscono l’effetto del riscatto. Come questa:

Lo spazio ci libera da tutto. (pg. 126)

E io aggiungo: anche la lettura.

 

Foto e testi: Luana Lamparelli

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Arthur Golden – Memorie di una geisha

 

Quando ero piccola avevo tre desideri: diventare educatrice per non vedenti (questo per il mistero allora a me inaccessibile del film “Anna dei miracoli”), diventare un’autrice di racconti e romanzi (per le super fiere dei libri a cui mia madre mi conduceva. Ricordo lo sfavillio di una immensa, persa nei ricordi di un Natale della mia infanzia. Ovviamente non sapevo ancora nè leggere, nè scrivere), e diventare samurai (ero pazza di una serie televisiva che si chiamava “I sette samurai”, sognavo di diventare l’unica samurai donna).

Da allora solo il desiderio di diventare samurai non si è realizzato affatto, anche se molto della cultura giapponese è in me, per diversi aspetti.

Poichè questo è lo spazio dedicato ai libri da me letti all’interno del mio blog, dovendo sceglierne uno per cominciare, alla luce della premessa non posso che partire con “Memorie di una geisha”, di Arthur Golden.

“Da bambina credevo che la mia esistenza non sarebbe stata turbata da nulla se il signor Tanaka non mi avesse strappato alla mia casa ubriaca; ora so che il nostro mondo è tanto instabile  quanto un’onda che si innalza in mezzo all’oceano. Quali che siano stati i nostri conflitti e i nostri trionfi, per quanto indelebile sia il segno che questi abbiano potuto lasciare su di noi, finiscono sempre per stemperarsi come una tinta ad acquerello su un foglio di carta.”

Sono queste le ultime parole con cui il romanzo di Arthur Golden si chiude. Un romanzo meraviglioso per la delicatezza della poesia che appartiene a chi guarda il mondo in un certo modo e per la forza che in virtù di ciò gli appartiene. Una forza fatta di pazienza, determinazione, intelligenza per domare le situazioni senza ricorrere mai alla violenza, senza mai lasciarsi sopraffare dallo sconforto, o dalla rabbia.

Il mondo delle geishe è un mondo ormai quasi del tutto inesistente. La nostra cultura occidentale, che così poco conosce dell’incanto nipponico dei secoli passati, ha alterato l’immagine delle geishe così tanto da allontanarla dal significato del termine tradotto nella nostra lingua: “geisha” significa “artista”. Un’artista, dunque, la geisha. Essendo donna, dovendo avere a che fare con uomini, una donna che doveva essere bene accorta, vigile e al tempo stesso femminile e ricca di garbo virtuoso. Doveva saper suonare lo shamisen, saper danzare, saper parlare, tutto questo per dilettare gli uomini, magari mentre loro erano del tutto distratti rispetto a quanto gli accadeva intorno. La vita della geisha era governata da regole ferree e precise, non le apparteneva affatto, in nulla, nemmeno nei guadagni. Le case da thè, gli okiya, gli ohana, gli zori, gli obi, i kimono, i sakè, il rito del mizuage: a tutto ciò ci introduce questo romanzo, con una trama fitta e densa.

Ma cosa di questo libro affascina e letteralmente rapisce il lettore, in un turbinio di colori e immagini che si rivelano precisi sotto i suoi occhi, man mano che legge?  Cosa lo tiene legato al libro? L’ho letto tutto d’un fiato, tra le corse in treno e le notti che si facevano corte per i capitoli intriganti. Ogni volta che lo chiudevo, non potevo non soffermarmi sulla sua copertina.

 

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“Non diventiamo geishe perchè vogliamo che la nostra vita sia felice, ma perchè non abbiamo altra scelta.” (pg. 538)

La storia comincia lontano per approdare a pagine meravigliose dove tutto acquista un senso. Una bambina che diventa donna e ancor prima è già geisha. Un mondo difficile e a tratti crudele. La determinazione, le intemperie della vita, le passioni impossibili da vivere. E la dignità delle protagoniste più intelligenti.

“Con il termine dignità intendo una specie di fiducia in se stessi, di consapevolezza, tale da rendere irrilevanti i piccoli sbuffi di vento o gli schiaffi di un’onda.” (pg. 203)

Quello che più mi colpisce di questo libro è l’intelligenza di alcuni personaggi maschili: vanno oltre la figura della geisha, con le compromissioni che tale mestiere a tratti inevitabilmente comporta, e vedono la donna che c’è oltre l’ovale incipriato alla perfezione, imbiancato per far dimenticare a sè stesse l’io interiore. Tra le labbra tinte di rosso e gli occhi segnati di nero, questi uomini non dimenticano cosa significhi essere uomini, non smettono mai di riconoscere la dignità della donna, serbando loro parole di incoraggiamento.

“Mi aspetto di vederti affrontare l’esistenza a occhi aperti! Se tieni a mente il tuo destino, ogni attimo di vita diventa un’opportunità per avvicinarti a esso.” (pg.415)

La protagonista Sayuri parla di sè partendo da quando non era Sayuri-san, ma Chiyo-chan, e aveva un padre, una madre, una sorella, una casa ubriaca sull’oceano. Il mondo di quella bambina è destinato a scomparire del tutto, e lei stessa diventerà ben altro. Le sorprese sono tante, i colpi di scena non mancano, il romanzo vive e respira senza sosta, lasciando il lettore senza fiato. Riflette su di sè, Sayuri-san, ed è come se tutti noi ci guardassimo come attraverso uno specchio.

“Sappiamo tutti che un panorama invernale, ammantato di gelo, con gli alberi avvolti in scialli di neve, sarà irriconoscibile all’arrivo della primavera; eppure non avevo mai immaginato che una simile trasformazione potesse accadere dentro un essere umano.” (pg. 213)

Non solo: Sayuri parla del dolore e sembra lenire le nostre ferite.

“Il rimpianto è un tipo di dolore molto particolare; di fronte a esso siamo impotenti. È come una finestra che si apra di sua iniziativa: la stanza diventa gelida e noi non possiamo fare altro che rabbrividire. Ma ogni volta si apre sempre un po’ meno, finchè non arriva il giorno in cui ci chiediamo che fine abbia fatto.” (pg. 336)

Conosce bene le debolezze dello spirito umano e i luoghi in cui esso si rifugia per sentirne meno le urla addolorate.

“Non c’è nulla come il lavoro per superare una delusione” (pg. 536)

Al tempo stesso, la protagonista sa quando quel dolore potrà avere voce.

“Non credo che nessuno di noi possa parlare del dolore finchè non ne è fuori” (pg. 551)

Giungere alle ultime pagine di questo libro significa scoprire la dolcezza che la vita sa riservare a chi persevera e procede sul proprio cammino, benchè difficile e spesso pieno di delusioni e amarezze, senza per questo sentirsi sconfitto o arreso. Sono pagine di una bellezza sconvolgente, bellezza che colpisce nell’intimo di chiunque, proprio per quella poesia di cui ho già parlato. Quella che spesso diviene anche la poesia dei ricordi, di fronte ai quali la realtà non ha il valore maggiore che dovrebbe avere.

“A volte credo che le cose che ricordo siano più reali di quelle che vedo.” (pg. 562)

Ho terminato di leggere questo romanzo in una domenica di sole, in spiaggia, ignorando telefonate, amici che mi attendevano da tutt’altra parte e amici giunti in spiaggia per trascorrere insieme del tempo. Perchè? Perchè questo libro permette di riconciliarsi con la parte di sè che più soffre e più ricorda. Se pensiamo a quante maschere indossiamo noi per tirar dritto nella vita di ogni giorno; se pensiamo all’arte di parlare con gli altri mistificando il nostro dolore e le nostre sofferenze per non rigare il trucco e far stare sempre a proprio agio l’interlocutore di turno, che siamo noi commercialisti, o scrittori, o insegnanti, o genitori, o amanti; se pensiamo a tutto ciò, non può assolutamente sfuggirci che in questo libro ci siamo noi, e che quelle labbra chiuse, raffigurate in copertina, che pare vogliano raccontare il più dolce segreto già svelato, siano in realtà le nostre. Ho chiuso questo libro e ho immortalato il momento con questa foto. Poi sono rimasta in silenzio per qualche giorno, rileggendone a tratti le ultime pagine. Spero possa travolgere piacevolmente anche voi. Il mio migliore augurio.

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Foto e testi: Luana Lamparelli

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DIMARTINO, GENTILUOMO DI TRENT’ANNI. (Perchè “Ormai siamo troppo giovani”)

Giugno 2013: risale a due anni fa la prima chiacchierata con il cantautore siciliano Antonio Di Martino, in arte Dimartino. Era il tour di Sarebbe bello non lasciarsi mai ma ogni tanto è utile. Dopo il suo concerto, ci siamo ritrovati seduti a un tavolino, Dimartino con un mojito e la sua bella faccia sorridente benché stanca. La prima domanda che gli posi fu quella da cui l’idea di incontrarlo e intervistarlo nacque, ovvero che cosa avesse pensato percorrendo tutta la strada che avevamo percorso io e la mia amica per giungere al luogo del concerto. Era una strada in aperta campagna, lunghissima, pareva interminabile. Mentre mi lamentavo dell’ennesima storia irrisolta, mi chiesi che cosa avesse pensato il cantante facendo quella stessa strada con un concerto ad attenderlo. Siccome il discorso ex/non ex mi aveva infervorata non poco, una volta giunte, chiudendo lo sportello, avevo detto decisa: “Adesso trovo il cantante e glielo chiedo, che cosa ha pensato di ‘sto posto mentre faceva tutta ‘sta strada che sembrava dimenticata pure dagli umani”. Doveva essere la domanda rompi-ghiaccio, ma io avevo alla mia destra un ragazzo davvero gentile e disponibile, molto a modo, che rispondeva composto dopo una risata cordiale.

COSA PENSAVI MENTRE TI CONDUCEVANO IN AUTO IN QUESTO POSTO? IN QUALE LINGUA BESTEMMIAVI?

In realtà non vedevo l’ora di arrivare. Abbiamo viaggiato tanto, in auto, per le date dei concerti di questi ultimi giorni. Siamo partiti da Palermo, poi Bologna, Trani. Tutto in auto. Ero stanco.

CHE MUSICA ACCOMPAGNA I RICORDI DELLA TUA INFANZIA?

John Lennon. Erano gli anni ’90, io ero un bambino. Mio padre comprò un lettore CD, uno dei primi, e gli suggerirono anche un CD. Tornò a casa con Lennon, era Natale. (E intona “So this is Christmas”, con la voce pulita che ha e gli occhi che sorridono.)

CHE MUSICA ASCOLTI QUANDO NON LAVORI?

Swans, mi piacciono molto. E poi Brunori, Dente, Carnesi, Colapesce. Oratio mi piace tanto. Siamo cresciuti insieme, potremmo dire così. Fra di noi c’è molta stima. 

UN LIBRO, UN FILM, UN REGISTA.

Un libro: L’arte di correre, di Murakami. Un film: In the mood for love. Un regista: Marco Ferreri.

CALVINO DICEVA: SI SCRIVE SEMPRE PER NASCONDERE QUALCOSA IN MODO CHE POI VENGA SCOPERTA. NASCONDI ANCHE TU QUALCOSA NELLE TUE CANZONI?

Certo che sì. E qui nasce tutta una serie di fraintendimenti, perché poi tutte le mie ex vedono sé stesse nei miei testi, anche dove non ci sono, e mi fanno le domande, mi citano i versi, s’immaginano cose anche dove non ci sono affatto. Mai innamorarsi dei cantanti, perché poi ti ritrovi in tutte le canzoni senza volerlo! (Ride, ndr.)

STO LAVORANDO A UN NUOVO ROMANZO. CI SONO DUE DONNE IN VIAGGIO. POSSO FARTI FARE LA TUA PARTE E RACCONTARE DI UN TUO CONCERTO?

Certo che sì!

Non avevo previsto molte domande, non volevo sottrarlo troppo ad autografi e foto. Però Dimartino è stato sorprendente: le risposte alle domande erano il punto di partenza per parlare amichevolmente. Abbiamo davvero chiacchierato come amici al bar, spaziando nei temi e ridendo. Antonio Dimartino, questo ragazzo di appena trent’anni che ha guidato percorrendo tutta l’Italia, che ha appena cantato per il suo concerto, ci piace molto per la sua simpatia, lo sguardo intelligente, la tranquillità delle persone che stanno bene con sé stesse. Ci parla di sé, si incuriosisce su di noi, mi chiede di parlargli del mio primo libro, Giardini senza tempo, vuole sapere dove può acquistarlo. Ci  racconta di un secret concert tenuto a Milano: ha suonato in un loft sui Navigli (“Poca gente e bella atmosfera”, sottolinea con la voce),  organizzato da G. di Marta sui tubi.

Non potevamo non parlare dell’ultimo film di Sorrentino, quello che pare “si ami o si odi”: La grande bellezza. Gli è piaciuto, sì, anche se per lui il più bello di Sorrentino è L’amico di famiglia. “Per la scrittura”, tiene a precisare. Cantautore da scoprire e conoscere, laureato in Lettere e Filosofia, ama molto leggere. Ci consiglia persino un’autrice: Zadie Smith. Ci parla di questa scrittrice di origini giamaicane e inglesi, e suggerisce il suo Denti bianchi.

Per chiudere questa intervista, avevo pensato a una domanda molto provocatoria, ma non gliel’ho posta. Ho scelto di salutare questo giovane artista dalla modestia ammirevole con la stessa cordialità con cui lui  ci mi ha accolta. Sono contenta di stringergli ancora la mano, ringraziarlo, e sentire lui che ringrazia me a sua volta. Sono contenta di tornare a casa con gli Swan e la Zandie da conoscere.

 

Luana Lamparelli

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Intervista a Stefano Pugnali. Dietro le quinte, un uomo dai valori forti e veri

Il manager milanese ha le idee chiare e i modi cordiali, gentili e disponibili, propri di chi si è fatto strada da sé restando ben radicato alla propria storia e a valori autentici, quelli che contano, capaci di fare la differenza. E poi è tutto freddo, si perde il bello della comunicazione. Tutto quello che ci stiamo dicendo ora, le risate, quello che riguarda noi al di là delle domande, non ci sarebbe stato se non avessimo parlato davvero.

Sono nel bel mezzo dell’intervista, quando la voce limpida e amichevole mi dice queste parole. Sono al telefono e dall’altra parte c’è Stefano Pugnali, il manager di molti attori e cantanti del panorama italiano, tra cui Morgan, Paola Maugeri, Sinigallia, I soliti idioti e molti altri.

Il manager milanese ha le idee chiare e i modi cordiali, gentili e disponibili, propri di chi si è fatto strada da sé restando ben radicato alla propria storia e a valori autentici, quelli che contano, capaci di fare la differenza. La sintonia è immediata, subito si abbatte il muro del mito di cui si sa poco e nulla come persona.

Persino nel web, infatti, non sono molte le informazioni a suo riguardo: “Perché un vero manager deve restare in disparte, se vuole davvero veder crescere l’artista che di volta in volta sostiene”, mi risponde quando gli faccio presente il velo importante di discrezione che avvolge la sua vita privata, a differenza di molte altre personalità del settore. Non solo: è una persona che conosci piacevolmente, e nella sua semplicità ritrovi soprattutto il valore della famiglia, della sua amata famiglia.

“Essere e fare” o “saper essere e saper fare”: cosa è preferibile, a suo avviso?

Questa è una domanda un po’ alla Marzullo, permettimi. Decisamente è meglio saper fare, saper essere. Perché, alla fine, cosa rimarrebbe senza? Per fortuna la crisi che stiamo vivendo ha anche un aspetto positivo: ha ripulito da quel periodo in cui chiunque andava in TV e diventava subito una star, acquisiva subito una popolarità ben spendibile, dando esempi negativi. Trovo fondamentale il saper fare, avere delle doti e saperle mettere a frutto, anche se purtroppo esistono giovani che hanno grandi capacità, grandi doti, ma non la buona fortuna di incontrare manager professionali e competenti, o risorse da investire per la propria carriera e la propria professione nel mondo dello spettacolo. Molti artisti sono privi di quel pizzico di fortuna in più che gli permetterebbe di fare il salto di qualità, e questo mi spiace.

Una regola del marketing asserisce che per ottimizzare i risultati bisogna abbassare le aspettative. Se volessimo applicare questa strategia di marketing al mondo dello show business, sarebbe preferibile esporsi interamente sin da subito o gradualmente, sapendosi reinventare progressivamente?

Sicuramente darsi un po’ per volta, capendo chi è davvero l’interlocutore con cui di volta in volta ci si relaziona. Bisogna essere capaci anche di giocarsi le carte giuste in base a chi si ha di fronte, che sia un regista, un gruppo di propinatori, un casting o il pubblico. Ritengo fondamentale la capacità di intuire l’identità dell’interlocutore e sapere cosa mostrare e cosa nascondere.

Cosa sarebbe meglio nascondere oggi, allora?

Essere da subito “troppo” può dare fastidio, se si ha a che fare con un gruppo casting superficiale. 

La grande bellezza, il film di Sorrentino: uno scrittore al centro della scena, gente che vive la mondanità come fosse un gruppo di star pur non essendo nessuno, dandosi quel tono che in realtà non è che uno specchietto per allodole. Ci rappresenta o no?

Ni. Secondo me, rappresenta un’Italia che c’è stata, per fortuna l’Italia di oggi non è solo quella. Quanto portato sul grande schermo dal regista Sorrentino è un lato degli italiani, del nostro carattere, non tutto quello che noi italiani siamo.

Chi c’è allora dall’altra parte dell’Italia non portata sul grande schermo?

Dall’altra parte degli italiani che vivono di feste senza concludere granchè, ci sono gli italiani che hanno fatto del nostro Paese una Signora Nazione. L’Italia è un paese ricco, possiede una storia molto importante, soprattutto sotto il profilo artistico e produttivo. Abbiamo la moda e la cucina, abbiamo nomi che hanno inventato la moda e fatto la storia della moda, vedi Giorgio Armani per esempio, che col suo made in Italy ha conquistato e regalato all’Italia tanto onore. Dall’altra parte c’è un’Italia che ha fatto tanto, costruito un’identità di Paese per cui ha lavorato tanto, seppur oggi si veda rubare tutto o deprivare del prestigio costruito nel tempo.

La politica. Se ti dicessi che a mio avviso è il più grande spettacolo e insieme il più grande processo di spettacolarizzazione a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni, ti troverei concorde?

Assolutamente sì. La politica italiana è il vero show. È tutto talmente palese: i giochetti dei politici, le loro manovre, le loro truffe. Possono raggirare l’anziano, ma non tutto un popolo, specie non i giovani (vedi la faccenda delle auto blu e gli 80 euro in busta paga). L’Italia è un paese che amo, ma non possiamo sperare di risollevarci continuando con queste dinamiche politiche, affidandoci a una simile classe dirigenziale. Dovremmo riportare i capitali in Italia, invece allontaniamo sia i capitali, sia gli imprenditori, che sempre più spesso guardano oltre confine.

Conosco molti imprenditori attraverso il mio lavoro, e molti non nascondono di star cercando nuove strade al di fuori della nostra Nazione, non perché non vogliano più investire nel nostro Paese, ma perché non ci sono i presupposti giusti per crescere. La verità è che sottovalutiamo il potenziale della nostra lingua di Terra in mezzo ai mari. Se guardo la Francia, o le altre nazioni vicine alla nostra, vedo che hanno molto meno, ma lo vendono a molto di più. Mettono a frutto quel che hanno e salvaguardano sé stessi e il proprio mercato. Noi, invece, ci stiamo svendendo e avvilendo senza risollevarci, senza puntare sulle nostre risorse e senza mettere a frutto le nostre potenzialità.

 

© Luana Lamparelli 2014

Articolo pubblicato il 13 Marzo 2015 nella rubrica “Ars Artis”. Seguila in anteprima esclusiva sui portali barilive.it, tranilive.it, coratolive.it, ruvolive.it, terlizzilive.it, giovinazzolive.it, bitontolive.it

Intervista al regista Michele Pinto

L’arte é un mestiere per chi sa soffrire, appartiene a chi sa osservare la realtá

La nuova intervista di Ars Artis vi fa incontrare oggi Michele Pinto, regista pugliese che sempre più spesso fa parlare di sé nel panorama nazionale e oltralpe. L’ho incontrato durante le nuove riprese sulla tematica delicata della condizione dei richiedenti asilo politico, un progetto filmico realizzato con l’associazione di volontariato Salah e giovani provenienti dal Mali e dalla Nigeria.

Un lavoro, questo, che parte dal loro vissuto di svantaggio , in cui il regista Pinto vuole sottolineare  la situazione iniziale di sconfitta per  sviluppare poi un iter dal finale aperto, raccontando qualcosa di universalmente valido. È questo un progetto che lo sta assorbendo molto, non solo sotto il profilo cinematografico e professionale, ma anche moralmente e spiritualmente, come lui stesso dichiara. Tra funzione sociale del cinema, fonti di ispirazione e passioni che segnano una vita, Michele Pinto ci ha parlato di sé.

Nella tua vita ci sono due grandi passioni che scopri bambino e coltivi costantemente: i fumetti e il cinema. Quale delle due però scopri per prima e da cosa scaturisce l’altra? Come le coniughi nella tua produzione artistica?
Inizio a fruire soprattutto del cinema all’età di 4 anni, quando vedo per la prima volta “L’Orca assassina” ed è l’arte con cui mi son sempre cimentato di più. Considero l’arte dei comics non solo la più antica forma d’arte -basti pensare alle prime pitture rupestri ritrovate nelle caverne degli uomini preistorici- , ma anche la suprema, poiché unisce due altre discipline artistiche molto importanti: la pittura e la scrittura. Del resto anche alla base dell’ottima lavorazione di un film c’è sempre un incredibile lavoro di storyboarding, ovvero di preimmaginazione di quelle che saranno le diverse inquadrature da realizzare, quindi anche il cinema è a suo modo figlio dei fumetti. Per quanto però sia un grandissimo collezionista di fumetti (possiede circa 20.000 volumi, ndr), non ho mai avuto grandi pretese pittoriche.

Molti lavori, molti premi, molti riconoscimenti a livelli nazionali ed internazionali. Sei un regista. Meglio l’identità di genere o l’identità di ruolo?
Di ruolo. Sai, si dice che per fare il regista devi provare enorme repulsione per la realtà e per tante cose che non vanno a questo mondo, tanto da volerlo ricostruire all’interno di quattro lati: all’interno di un’inquadratura. Ecco, questo è il compito del regista. Il principio che asserisce che “in natura nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma” non lo reputo affatto applicabile al ruolo del regista. Il regista infatti è una delle poche figure lavorative che pesca elementi di vario genere (musiche, attori, location, maestranze), li fonde assieme e ne fa uscire una cosa nuova di natura completamente diversa rispetto a quelle  degli ingredienti iniziali.

Il cinema e la produzione filmica in generale: arte, mestiere, strumento di comunicazione. La tua opera, i tuoi lavori: come declini questi tre aspetti e qual è il modo strettamente personale con cui concepisci il cinema e la produzione cinematografica? Qual è l’obiettivo che persegui?
Io ritengo, come sosteneva già qualcuno prima di me, che il cinema e in generale le immagini in movimento siano l’arma più forte. Potevo fare il politico, il medico, ma alla fine per cercare di migliorare la società ho abbracciato quest’arte, perché sono sicuro che niente come il cinema possa dettare modelli e inviare messaggi costruttivi. In più, se ci pensi, oggi la telecamera è la vera “signora” della vita: siamo circondati da telecamere di sorveglianza, talvolta le indossiamo persino, o le rechiamo sempre con noi grazie ai nostri smartphone tuttofare.

L’ispirazione per te è…
Molto spesso, e non solo in quest’arte, l’ispirazione deriva dal dolore e dall’aver sofferto. Se hai sofferto, o hai vissuto emozioni in modo intenso, hai certamente qualcosa da raccontare  e che appassioni il pubblico. Del resto è stato già dichiarato che il cinema non morirà mai finchè  non smetteremo di osservarci. Ma se sei felice, del narrato sulla tua felicità ti garantisco che non gliene frega niente a nessuno.

Fabrizio Bentivoglio ha dichiarato: “Gli attori americani usano il Metodo perchè negli Stati Uniti c’é un manuale per ogni cosa. Noi invece inventiamo, non riproduciamo pedissequamente”. Cinema italiano contro cinema americano. Per dirla alla nostra, come la vedi? Insomma: croce e delizia dell’uno e dell’altro, e poi, se possibile, la tua preferenza. Motivata però.
Anche in Italia si seguono metodi. Lo sanno bene soprattutto gli attori che fan la gavetta a teatro: i loro studi variano in base al precorso che intraprendono. Abbiamo così  certi che studiano lo Stanislavski, altri che macinano parecchio la commedia dell’arte e tanto teatro vernacolare che è sempre una ottima palestra, poiché  la recitazione dialettale è quella più genuina che rende effettivamente le intenzioni vere di un personaggio. Io stesso provo in dialetto molte volte coi miei attori, affinchè  le battute da recitare abbiano l’effetto di frasi tirate fuori dallo stomaco, anche se poi  le riprese sono in italiano. Al di là di quest,o il percorso ideale come sempre è quello delle contaminazioni: lasciarsi affascinare ed influenzare da tutto e studiare, incuriosendosi sempre. Una volta parlavo con un attore di cinema che, di colpo, s’ipnotizzo per spiare un clochard che, a pochi metri da noi, stava scartando una caramella. La cosa fu davvero illuminante: in quel momento egli studiava per creare un ruolo lasciandosi ispirare dalla realtà. È proprio vero che Mercurio, oltre ad essere il messaggero degli dei, è  anche il protettore dei ladri, quindi anche degli artisti.

Quando non sei dietro la macchina da presa o davanti al computer come dovrebbe immaginarti chi non ti conosce?
Col kimono da karate ad allenarmi in palestra. E’ uno sport che pratico da circa 15 anni e che rappresenta la massima fusione di benessere relativo a psiche, anima e corpo.

© Luana Lamparelli 2014

Articolo pubblicato il 5 Dicembre 2014 nella rubrica “Ars Artis”. Seguila in anteprima esclusiva sui portali barilive.it, tranilive.it, coratolive.it, ruvolive.it, terlizzilive.it, giovinazzolive.it, bitontolive.it

“La Cordialità” di Mariella De Santis

Una scintilla di splendore custodita in un libro

“Ho ricevuto in dono un libro bellissimo.”
“Di cosa parla?” disse l’Imperatore all’Imperatrice.
(…) “Parla di storie terribili e crudeli, belle come può esserlo solo la vita.”A parlare, in questi versi, è l’Imperatrice Ammuina; a scrivere è Mariella De Santis.
Sono, questi, versi contenuti nella sua ultima opera, La Cordialità, titolo che raccoglie otto anni di lavoro e numerosi componimenti poetici scritti dall’autrice tra il 2005 e il 2013.

Leggere La Cordialità di Mariella De Santis significa fare un viaggio: tra oggetti, paesi lontani e vicini, conosciuti o sognati, che si manifestano nella loro realtà metafisica: oltre ciò che oggettivamente sono, essi sono quello che alla mente rammentano. Carichi di pathos, i suoi versi sono rimandi al mondo interiore che tutti noi ben conosciamo: quello dei sentimenti e delle emozioni, dei ricordi e delle speranze –vane, attese e disattese dall’incanto o dal disincanto a cui la vita, inevitabilmente, ci obbliga.

È come diceva Pavese: “Ci colpisono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare  ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi”.

È come diceva Calvino: “ (…) togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città”.
Vi è così la leggerezza della parola, vi è così il risuonare in noi di nuovi spunti e rinnovati sguardi, nella poesia di Mariella De Santis. Talvolta non senza l’ironia, gran compagna di vita.

Nata a Bari, milanese di adozione, autrice di testi teatrali, di racconti e poesie, ho avuto modo di conoscerla in un paese carico di significato per entrambe, Corato, quando mi fu chiesto di curare la prima presentazione ufficiale del suono nuovo libro, La Cordialità appunto, edito da Nomos Edizioni. Ritrovarla per dialogare ancora con lei per Ars artis è stato un piacere.

Scrivere è un mestiere del tutto particolare, perché fondamentalmente nasce passione e tale rimane sempre, al di là dei diversi momenti che segnano la carriera di uno scrittore. Quando hai portato allo scoperto la tua passione per la scrittura, e quando è nato e maturato in te il desiderio di pubblicare?

Forse la mia passione è più la lettura che la scrittura. Intendo dire che più passano gli anni e più voglio stare dentro una relazione di libertà con la scrittura che sia priva di ogni coazione. Tempo fa andava di moda parlare di urgenza della scrittura. Mi ha sempre un poco infastidita quella espressione. È incline ad una forma narcisisitica, autoreferenziale del compito che da soli ci affidiamo. Io, casomai, mi muovo dentro una verifica di necessità della mia scrittura che sappia sganciarsi dal mio bisogno.
Pubblicare il primo racconto nel 1991 è stato quasi causale. Sapevo di aver scritto un testo di una qualche originalità e il poeta Primo Leone, redattore della rivista barese La Vallisa, volle pubblicarlo. Parlò di me come di una promessa letteraria. Più che una lusinga, su me sentii la responsabilità di una tale affermazione. Seguì nel 1992 una segnalazione al Premio Montale e da lì l’interesse di alcuni editori.

Pubblicare un libro, una tua opera, cosa è per te e cosa rappresenta?

È una riconsegna al mondo di qualcosa che gli appartiene e che io ho trasmutato in una forma nuova attraverso l’attenzione, l’osservazione, il tentativo di partecipare alla comprensione dell’esistenza ma anche quello di tentare un atto di riparazione al vivere senza consapevolezza che, per me, è ragione di molta parte di dolore del mondo.

Essere scrittori oggi, per te: portare scompiglio o addolcire gli animi, alleviare dagli affanni? Qual è il ruolo sociale e il compito che riconosci nel semplice nome “scrittore”?

Forse, dilungandomi, in parte ho già risposto precedentemente. Se c’è un compito che mi sento di affidare alla scrittura, è quello di allargare gli spazi del possibile. Svegliare la percezione di proprie finitezze mentali, emozionali, comportamentali e sensibilizzare l’attenzione. Sobillare il torpore. Poi, amo chi sa farmi ridere con intelligenza e gusto, commuovermi perchè mi muove dal punto in cui sono versandomi in altre acque, ma anche le grandi tempeste, le turbolenze sono benefiche nell’arte. Quando a dodici anni, leggendo i classici reperibili in casa, mi imbattei in una frase de L’uomo che ride di Victor Hugo: “E il suo pianto risuonò come un colpo di tosse nell’universo” (cito a memoria, senza testo alla mano), io ebbi davvero la sensazione di un colpo di tosse che deflagrasse nella mia mente, che allargò le mie possibilità di pensare il pensabile, l’immaginabile.

Le tue poesie parlano del quotidiano e raccontano di emozioni che vivono e sono vissute “oltre” la semplicità dei gesti soliti, un “oltre” che li connota in modo sempre nuovo, perchè a rinnovarsi è il sentire dello spirito in quegli attimi apparentemente sempre uguali. Quasi una dimensione sensoriale che vive in parallelo all’apparente asepsi dell’azione e che bisogna saper prendere, afferrare “a due mani” – e uso qui il verso di una tua poesia. Il sarcasmo dilagante oggi, in molti, lo interpreti come perduta capacità di vivere le emozioni, come meccanismo di difesa che si traduce in incapacità di lasciarsi andare pur vivendo e avvertendo dentro di sè, o inadeguatezza rispetto a quel “saper guardare oltre”?

Il sarcasmo è una difesa dal contatto con le emozioni profonde che si traduce in una squalifica dell’altro. Si deve essere anche sanamente contro le idee o i modi di vivere in cui non ci riconosciamo, ma dovremmo sapere sempre evitare di umiliare l’altro. La squalifica è umiliazione. La verità che riusciamo a cogliere in onestà e a restituire disturbando forse, ma non ferendo, è più sovversiva del sarcasmo.

Quando ci siamo incontrate, alla domanda “Come definisci questo libro”, mi hai risposto “Come un cavallo di Troia”. Perchè?

Perchè La Cordialità, già col suo titolo leggero, quasi neutrale, non dichiara, non annuncia ma al tempo stesso è perentorio, quindi crea un disorientamento dentro il quale ognuno potrà cercare la propria misura. Ho voluto consegnare un libro in cui i lettori più differenti potessero entrare, accomodarsi e entrare in rapporto con i diversi livelli della mia ricerca, ma senza dichiarare nulla. Quindi c’è la possibilità di soffermarsi sul livello del gesto quotidiano. Qualcuno ha parlato di minimalismo, come su interrogazioni perentorie, assolute, ma offro ad ognuno la possibilità di esercitare la propria sensibilità o competenza nei gradi più diversi.

Nella tua poesia “Una sera di febbraio”, un verso recita: Di quanta vita sono fatti i silenzi. Cosa è il silenzio per te?

E’ lo stato da cui tutto inizia. E’ l’ascolto illimitato del necessario. L’abiura del sovrabbondante.

Nella tua opera “Disobbedienza d’amore”, ad apertura di testo, quasi a premessa e nota, scrivi: “Per diverso tempo ho avuto il desiderio di scrivere storie di donne la cui esistenza fosse segnata dalla presenza del limite. Avevano voce in forza di un dolore che era al contempo misura della vita e possibilità di conoscenza ed esperienza dell’alterità. (…) La disobbedienza della protagonista non è solo rivolta ai suoi propri intimi vincoli, ma è lì quale forza capace di dignità morale, sociale e civile. Contro tutte le inspiegabili obbedienze che vengono richieste a fronte di un quieto vivere, la mia risposta è una ragionata ma appassionata disobbedienza che sia esperimento di un consapevole essere nel mio tempo”. 

Adesso, a proposito della tua nuova opera, La cordialità, affermi che la cordialità è la misura per vivere ogni giorno. Le due prospettive sono da intendersi nell’ottica della crescita e del cambiamento strettamente personale che si riflette nella produzione letteraria, oppure vanno correlate tra loro, imprescindibili l’una dall’altra, la cordialità e la disobbedienza, per quanto possano apparire in contrasto?

Vedi, il mio intento è il medesimo in ogni caso: capire come si possa trovare la propria misura tra bene e male, dolore e gioia. Come si possa stare nel mondo con sincerità, lealtà, senza distruttività. Ora, chiaramente per uno scrittore si attraversano territori mentali, linguistici, immaginativi che trovano forme molteplici di manifestazione, ma nel mio caso, la perenne questione sta qui. Anche in questo senso ti dicevo che La Cordialità è un cavallo di Troia. C’è una poesia su una venditrice di frutta al mercato e sul gesto nobile di offerta di un racimolo di uva, l’hai presente?

Apparentemente sto portando qualcuno in un minuto del quotidiano, ma io ho sentito la potenza del dono che ha fatto scoprire ai primi umani in cammino verso oggi, la possibilità di non essere soli. La cordialità (nel senso proprio, non del mio libro) per me si è configurata come quella possibilità minima, essenziale per poter ristabilire un patto tra viventi. Trovare la misura tra una aspirazione eroica e un consumarsi vile. Non possiamo poggiare sulle nostre piccole spalle compiti sovrumani, ma non possiamo neanche dimenticare che abbiamo una scintilla di splendore in noi, e allora l’essere cordiali, ogni minuto, ogni giorno, può essere il tappeto su cui ritentare passi saldi.

Cosa è per te la cordialità?
È la misura per vivere ogni giorno.

Nei componimenti di Mariella De Santis è la Vita a muoversi e raccontarsi. Dietro e oltre la linearità di oggetti e abitudini, ritroviamo quell’intimità, quella sensibilità, che ci dichiarano continuamente vulnerabili e per questo richiamano la nostra forza, la nostra gentilezza. L’insondabile emotività che ognuno di noi cela e vive al di là della consuetudine, oltre una quotidianità sempre uguale eppure mai banale, che ci invita a essere cordiali perché partecipi gli uni degli altri: questo riluce nelle sue poesie. C’è cordialità tra questi due mondi: quello del simbolo e quello che oltre esso si cela e spesso tace.

Come l’amore non detto, i sorrisi e gli sguardi scambiati, le parole dolci, o l’addio temuto, il tener vivo il ricordo di tempi passati, di sorrisi sbiaditi. Come tutte le volte in cui diamo le spalle, pur consapevoli di lasciare frammenti di noi ad ogni passo che muoviamo per allontanarci da chi pensiamo di scordare. E invece ce ne ricordiamo ogni volta che al mattino allunghiamo la mano, apriamo l’anta, impugniamo la tazza, ascoltiamo distratti il caffè che borbotta.

Ci sono l’attenzione e la partecipazione al mondo circostante, gli incontri con i bambini, gli sguardi sul mondo zingaro, la carezza per il passato, la speranza sempre promessa al futuro. Con gentilezza, con cordialità. E con leggerezza. La leggerezza di chi ha vissuto fino in fondo e sa quanta fatica costi il liberarsi dei pesi, dei macigni sul cuore.

© Luana Lamparelli 2014

Intervista pubblicata il 5 Luglio 2014 nella rubrica “Ars Artis”. Seguila in anteprima esclusiva sui portali barilive.it, tranilive.it, coratolive.it, ruvolive.it, terlizzilive.it, giovinazzolive.it, bitontolive.it