SETTEMBRE CHE PIOVE

II Meteo a Settembre dovrebbe essere una massima generale: “Pioggia all’occorrenza”.

Per tutti gli anni, per ogni estate che finisce.

Già immagino tutti i Meteo a fine telegiornale, le voci, i tubini aderenti e le cravatte strizzate.

L’autunno in qualche modo dovrà pur avanzare nei nostri stati d’animo, che lo vogliamo o no. E allora “Piogge a Settembre, prepararsi per l’evenienza. Raccomandiamo un ombrello sempre pronto in borsa” potrebbe essere il miglior annuncio meteorologico. Un classico, un evergreen, uno di quelli passepartout per il mese che riduce i costumi da bagno sotto mano.

Ieri era 21 Settembre: primo giorno di Autunno.

Sono uscita di casa, sono rientrata in casa, l’ombrello acciuffato al volo, daccapo ripiombare in strada.

Primo giorno di autunno e pioggia a picchiettare piano, a sottolinearlo con delicatezza, a farlo notare con eleganza. Camminando, pensavo, mi chiedevo, indagavo dentro di me, frugando per risposte a cui da soli non si può approdare. Chi di noi non rivede una serie di fatti “senza trama né finale”, nella fretta dei passi?

“Prendi qualcosa dalla vita di ogni giorno, senza trama né finale”.

(Anton Čechov )

Probabile che la percentuale di persone così, che camminano e si distraggono tra valutazioni e considerazioni, non sia alta e che il pensiero corra piuttosto al bucato lasciato steso fuori al balcone, o che non si potrà lavare fino a nuovo ordine di Sole, o alla serata all’aperto rinviata, alla partita di calcetto saltata. Ma qualcuno, io lo so, nella pioggia raggiunge qualcun altro, tra uno sguardo all’asfalto e uno ai ricordi.

Di Settembre, che ha il mare più bello come Maggio, a me piace la pioggia.

La pioggia di Settembre è una storia lunga, lontana nel tempo.

2014. Ruvo – il mio paese d’origine e d’oblio.

Settembre, appunto.

Un giovedì pomeriggio: le saracinesche chiuse, ogni cosa lasciata a sé stessa tra le strade vuote.

Una donna apre una galleria d’arte per un favore da ricambiare. Un uomo in bicicletta la vede, la raggiunge nello stesso istante in cui lei infila la chiave nella toppa. Inizia a pararle. La tempesta di domande assurde, lei sorride e ascolta, risponde interrogandosi a un livello differente dentro di sé. Dopo due ore, dagli occhi azzurri come il cielo di Primavera di lui, sgorgano due lacrimoni a lungo trattenuti. Lui le ha parlato tutto il tempo raccontandole una storia assurda, bella e brutale. Lei a tratti gli ha chiesto: “Questo tuo amico di cui mi racconti… sei tu”, esitando nell’ultima parte, tra il rispetto e il garbo educato. Lui puntualmente le ha risposto: “No, ascolta, senti adesso”. Adesso, coi due lacrimoni a segnare il volto di quell’uomo alto per spalle ed età, la verità è rivelata, senza più bisogno di domande e risposte.

“Perché mi hai raccontato questa storia? Vuoi che la scriva?”

“Sì. Adesso è tua, puoi farne quel che desideri.”

La donna che ascoltava ero io.

Prima che io la mettessi nero su bianco sono passati cinque anni.

Cinque anni di cambiamenti, paesi diversi, conoscenze ed eventi. La Liguria, poi Milano, il ritorno in patria.

Cinque anni di bagagli e traslochi.

Senza mai dimenticare la promessa di quel giovedì settembrino: “Lo farò”.

Poi un pomeriggio d’autunno – un altro autunno –, cinque anni dopo, ho attraversato strade a me note, sono arrivata in un ospedale, ho percorso corridoi, preso un ascensore, pigiato un numero di piano, attraversato altri corridoi, raggiunto uno studio, bussato a una porta. Un tragitto fatto una sola volta molti anni prima per motivi medici; un tragitto che ricordavo benissimo. L’ho trovato lì. Sorrisi e saluti convenevoli, con una confidenza complice nei limiti, prima di tirare fuori il manoscritto dalla mia borsa, guardare il dirigente medico dritto negli occhi stando dall’altra parte della scrivania e dirgli: “Un uomo, anni fa, mi ha chiesto timidamente di scrivere una storia. Me l’ha raccontata con devozione. Non so se ho ricordato bene tutti i dettagli, benché l’abbia sempre portata dentro di me con dedizione. Vuoi dargli un’occhiata tu?”. Ha annuito come un bambino alla maestra. “Te lo lascio. Passerò tra una settimana esatta, a quest’ora, a ritirarlo. Eventuali suggerimenti di modifica potrai segnarli a latere, ma non dovrai spiegarmi niente. D’accordo?” Questa volta ha setto “sì”. Sono andata via dopo un sorriso, fissando bene quei suoi occhioni azzurri.

Quanto possono aspettare le promesse, prima di essere realizzate nello scambio di poche battute e immensi silenzi?

In quel racconto, di cui spesso rivelo il titolo seguito da un punto interrogativo, ci sono un uomo e una donna, due amanti, che si sono rincorsi per paesi ed età diverse. Entrambi sposati, entrambi genitori, ma di altri coniugi e di figli diversi. Lei amava la pioggia, lui amava lei, per questo la assecondava nelle passeggiate torrenziali volutamente senza ombrello.

Non ho mai conosciuto il volto di lei e mai lo conoscerò; mi sarebbe piaciuto molto incontrarla.

Da quel Settembre, la pioggia ha assunto un significato diverso per me.

Negli ultimi anni, il tempo e l’imprevedibilità della vita hanno sfumato il mio sentire fino quasi a estinguerlo, finché non è giunta la scorsa Primavera: in un giorno di pioggia e insofferenza all’idea di restare in casa, ho inventato un gioco di allegria, una sorta di esercizio di scrittura che alla mia amica Eva tanto avrebbe fatto piacere sentirsi raccontare.   

L’autunno che incede è la nostalgia, ha detto qualcuno, e Settembre è l’autunno.

Settembre che piange, Settembre che piove.

Le mattine che corrono, la crema viso e le scarpe da ginnastica, le chiavi acciuffate al volo, una rassegna rapida alla borsa: l’agenda, le penne, l’acqua, gli spiccioli per i caffè. Girare e far scivolare il volante sotto le dita, far scorrere le canzoni nelle orecchie, a tratti ritrovare le gocce sul parabrezza.

I tramonti che s’insinuano sempre più nelle ore del pomeriggio e gli aperitivi che non strizzano più l’occhiolino, tra le chiacchiere da bar e i whatsapp sottobanco: c’è quel brio inebriante che viene via via a mancare. Ogni cosa torna seria e seriosa.

Le somme tirate non portano al risultato sperato e quel che resta non sempre ci trova contenti e felici.

O no?

A chi pensate mentre fuori piove? Da chi tornate, tra i passi che muovete nella pioggia?

Di chi vorreste che fosse il messaggio che giunge inaspettato?

Settembre riparte, Settembre ritorna. Porta nomi, ricordi, sfide, arrese, ripartenze.

Settembre: nuova stagione al cinema, nuove serie su Netflix, colonne sonore da reinventare nelle playlist da notti insonni, nuovo libro da sfogliare. Per qualcuno, nuove pagine da scrivere.

Settembre: punto e a capo.

Settembre: tu, il tuo nome, il tuo sorriso sulla camicia.

Ogni cosa che combatte – un dolore, un’attesa impotente, la bellezza impaziente, l’inatteso che si manifesterà improvviso, il sorriso che sta per esplodere in risata – nella pioggia trova resa e tregua. Anche solo per il tempo di una goccia che riga il vetro.

Provate a camminare nella pioggia, se ne avete possibilità. Magari un pomeriggio quando ancora fa caldo, come in questi giorni. Provate a tenere con una mano l’ombrello, nell’altra un gelato e a inventarvi un gioco di allegria. Magari una sfida con voi stessi: andare in un luogo preciso ad accarezzare tessuti e vestiti, a conoscere un nuovo sguardo, a sfogliare un libro in una biblioteca estranea, a scoprire nuovi scorci o nuove prospettive nel paese che vivete. La pioggia scroscerà più lenta attorno a voi. Provate a creare nuovi ricordi per le piogge che verranno, ad addolcire Settembre.

E se Settembre è per voi nostalgico, vivetela quella nostalgia, senza provare ad allontanarla da voi. Portate gli ombrelli, se fate il bilancio camminando su un lungomare; e se non ne usate, ricordate che le lacrime si mimetizzano meglio nella pioggia.

Forse, se vi distraete bene, vedrete anche quei due amanti camminare lontano.

L.L.

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Luana Lamparelli
Luana Lamparelli, pugliese, autrice e scrittrice, collabora con artisti, scrive racconti romanzi e poesie, cura rubriche.

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