Leggo un nome: Chernobyl

Il testo che segue risale al 2011. All’epoca è stato pubblicato su molte riviste cartacee a diffusione nazionale. Lo riporto oggi qui, per un motivo particolare e una persona eccezionale. Nel Dietro le quinte, in fondo al brano, tutti i dettagli.

Ho cinque anni. Forse ne ho già compiuti sei. Non ricordo. Potrei perfezionare questo ricordo. Chernobyl, come semplicemente chiamiamo quel disastro, è stato nell’85 o nell’86? Basterebbe poco per perfezionare il ricordo. Poco quanto un click. Ma non lo farò. Che importanza ha una data, un insieme di numeri che comunque non cambierà il corso della storia? Chernobyl è stato. È accaduto. Numero più, numero meno. Frequento l’ultimo anno di asilo. Ci impediscono di giocare in giardino. “È pericoloso!”, dicono. E ci rido su. L’aria che respiriamo è la stessa, che ci troviamo su un prato o al centro di una strada. Ci hanno impedito, ma io già voglio scoprire il perché dei divieti. Così, mentre mamme e maestre parlano, io e la mia migliore amica d’asilo sfidiamo quel divieto. Forse anche la sorte. Sgattaioliamo fuori, facciamo il perimetro del giardino trattenendo il fiato. Senza respirare! Per vedere chi ce la fa di più.

Ho dieci anni. Ho il sussidiario. Lo sfoglio. Mi blocco.

I miei occhi si fissano su corpi deformati, con pelli squamose. Corpi a tratti scintillanti, per i continui cambi di direzione delle cicatrici. Mi soffermo e mi chiedo perché, senza capire. Mi viene in mente solo quella sofferenza. Mi battono in testa lo sgomento, la non-rassegnazione, la rabbia, l’impotenza che quelle persone devono aver provato, e che forse ancora provano. Deve essere stato uno Tzunami emotivo, dentro di loro. Un tonfo sordo eppure carico di urla perpetue. I loro occhi sono puntati nel vuoto. Forse il vuoto che hanno dentro. Leggo una didascalia, leggo un nome: Chernobyl.

Ho ventisette anni. Sei mesi fa mi sono laureata, ne avevo ancora ventisei. Lavoro. Come sempre, ma con un’ansia in meno. Non devo più sentirmi in colpa quando esco con i miei amici, passeggio per strada, dormo di più, perdo tempo, rubo tempo… Ho un dolore alla pancia, anzi no: al basso ventre. Controlli. Ecografia. Un medico molto giovane, io sono l’ultima paziente. Vorrà fare colpo? Vorrà fare esperienza? Vorrà essere gentile? Ci sta provando. “Hai una milza perfetta! Da manuale! Non ne ho mai vista una così! …visto come so guardarti bene dentro, io?” dice, sornione.

L’apparecchio sale sempre più su, scorre sulla mia carne.

“Hai mai fatto l’ecografia alla tiroide?”

“No.”

No, ed è l’inizio di altre visite.

Ho trentuno anni. Tre lavori, una casa, un’auto, una vita che mi piace, e poco meno di mezza tiroide.

Ah, dimenticavo: ho anche una cicatrice a metà collo, e una compressa da prendere ogni mattina.

Io sono stata fortunata. Ho pianto, mi sono dannata, ho combattuto contro le paure, preso treni, fatto aghi aspirati tra Nord e SudIitalia in solitaria, ascoltato medici, consolato dentro di me le loro preoccupazioni. Carcinoma. Temevano. Nodulo benigno. Era. Ed era anche la mia tiroide, che funzionava benissimo.

Io, nonostante tutto, mi sento fortunata. Io sono stata fortunata. Niente chemio, niente radio, niente iodio. Terapia, ma solo per riprendermi dallo choc.

La migliore terapia è la Vita.

Dopo Chernobyl i casi di tumore alla tiroide hanno avuto un’impennata incredibile. Sono una conseguenza di quell’esplosione. Conosco gente che è morta, di tumore alla tiroide. A distanza di quasi trent’anni da quell’incidente.

E intanto centrali nucleari si sono costruite e si vogliono costruire.

E intanto centrali nucleari scoppiano.

Ho viaggiato. Ho cullato dentro di me quel nodulo che tanto preoccupava i medici. Come fosse un bambino. Ho perso la mia tiroide. Ho combattuto. Ho affrontato un intervento e mille momenti di sconforto. Mille, che son niente rispetto a quanto vivono altre persone, rispetto a quanto hanno vissuto quegli abitanti di Chernobyl. Mi ha resa più forte, questa esperienza. Mi ha resa capace di cose che mai avrei immaginato.

Perché era un intervento che sentivo di non voler fare. Perché ho perso più di mezza tiroide, la mia libertà di rifiutare farmaci, nonostante abbai cercato il compromesso migliore con la medicina nazionale, contrattato con le linee guida dell’OMS. Non voglio più rinunciare a nulla. Userò la paura solo per saltare il cerchio di fuoco e trovare il coraggio, o per capire quando il mio istinto mi sta proteggendo. Mai più consentirò ad alcuno (che sia una neoplasia come quella riportata sui miei documenti medici, o professionisti che devono dar conto di numeri a fine anno, o persone incapaci di reggere la mia libertà decisione, la mia ribellione, il mio essere oppositiva in difesa di me stessa) di dimenticare che la razionalità di cui sempre sono rimproverata è la corazza migliore a protezione del mio sentire, della mia sfera emotiva e del mio intuito.

Studio e insegno e studio sempre molta psicologia, è per questo che diffido di una grossa categoria professionale.

Le persone, gli umani, hanno bisogno di parlare di più a sé stessi, di riflettere e meditare, di ascoltarsi e imparare a guardarsi dentro.

L’umanità ha bisogno di silenzio e lentezza.

Mi ha resa più forte, Chernobyl. Più consapevole. Dai miei lontani giorni dell’asilo.

Dicono alcuni filosofi e sociologi che ogni individuo ripercorra le tappe del percorso di tutta l’umanità, nel corso della sua crescita.

Ma davvero l’umanità ha bisogno di altre centrali nucleari scoppiate, per poter crescere?

(Luana Lamparelli, Maggio 2011)

LEGGO UN NOME: CHERNOBYL , ©Luana Lamparelli, prima pubblicazione: 2011, tutti i diritti d’autore riservati

Fotografia di copertina:
© G. Meyer, Wild fox in the Chernobyl exclusion zone (entrance to Pripyat)ShareInfo

Dietro le quinte

Il testo che avete appena letto, strettamente autobiografico e vero in tutti i suoi dettagli, è stato realizzato nel 2011, quando mi hanno invitata come ospite a un evento di sensibilizzazione sociale contro il nucleare. L’evento rientrava in una serie di manifestazioni nazionali realizzate sul tema dallo stesso ente nazionale organizzatore.

Non è presente su nessuna piattaforma o fanzine.

Lo riporto qui, oggi, perché la scorsa settimana Brigida Sorice, direttamente su Instagram, mi ha chiesto dove potesse trovarlo. Non avrei mai immaginato che qualcuno potesse custodire traccia, nella propria memoria, di queste considerazioni e riflessioni, delle mie riflessioni.

L’ho rivisto poco, modificando appena solo la punteggiatura. Nel tempo il mio stile è cambiato, ma ho voluto mantenere fedele questo testo.

Nel web non è mai esistita traccia di questo testo, un po’ volutamente, un po’ per pigrizia o troppa concentrazione su obiettivi strettamente connessi alla mia professione educativa.

In realtà tutto quello che scrivo è educativo: educare deriva dal latino educere, che significa “portar fuori, mettere in luce”. Educare significa quindi far scoprire a ciascuno chi è davvero, lontano da tutte le sovrastrutture mentali, sociali e culturali. Per educare davvero bisogna porre domande e indurre a porsele continuamente.

Spero ci sia sempre qualcuno che, a partire dai miei lavori di scrittura e dalle mie stesse domande o riflessioni, possa trarre qualcosa di positivo per non arenarsi mai.

Oggi devo ringraziare Brigida, che su Instagram pubblica e condivide sempre contenuti importanti che mi inducono a riflettere e interrogarmi. La trovate al nome utente @sorryforallthecraziness, vi suggerisco di seguire il suo profilo e le sue stories.

Coltivate sempre i circoli virtuosi.

Luana



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Luana Lamparelli
Luana Lamparelli, pugliese, autrice e scrittrice, collabora con artisti, scrive racconti romanzi e poesie, cura rubriche.

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