Marcela Serrano, Dieci donne

Alla fine, dice fra sé allontanandosi dalla finestra, alla fine tutte noi, in un modo o nell’altro, abbiamo la stessa storia da raccontare.

Si chiude con queste parole il romanzo Dieci donne, di Marcela Serrano.

Ambientato a Santiago del Cile, paese di nascita dell’autrice, narra di nove donne invitate dalla loro psicoterapeuta per conoscersi e raccontarsi. Anello di congiunzione per queste sconosciute è infatti Natasha, la loro psicoterapeuta.

Ognuna di loro ripercorrerà il proprio vissuto, “donandolo” alle altre e rivelando il motivo della propria psicanalisi. Anche Natasha farà loro dono di sé e della propria storia di vita, ma attraverso la voce di un’altra donna.

Non so quale fosse la sua intenzione nel riunirvi qui, oggi. Lei non mi dice mai cosa farà, pertanto non posso anticiparvi nulla. Voleva dirvi addio? Forse. Voleva che vi aiutaste l’un l’altra nel caso lei fosse mancata? È  probabile.

Quando  la decima voce, ovvero la sua assistente, pronuncia queste parole, le nove pazienti si sono già “sintonizzate”, messe in contatto rivelandosi, affrontando temi epici. Ognuna con la propria visione, o la propria interpretazione. Ognuna testimone del proprio mondo, universi che s’incontrano.

Marcela Serrano ci conduce così nei luoghi dell’essere donna, con tutte le sfaccettature dell’universo femminile, per farci scoprire che in fondo sono sempre gli stessi punti quelli su cui ci interroghiamo, per quanto le nostre esistenze, i nostri ruoli sociali, la nostra ideologia sociale, o i nostri ideali, le ideologie politiche, la formazione culturale e professionale possano essere diametralmente opposti. A dispetto del tempo e anche dell’emancipazione femminile.

Proprio per questo, il suo è un lungo racconto capace di metterci in contatto con quelle parti di noi accantonate, o dimenticate, o trascurate. L’autrice ci pone di fronte ai grandi capitoli su cui ci interroghiamo, anche inconsapevolmente: il senso dell’amare e dell’amore, il significato di un uomo nella nostra quotidianità e della sua presenza vera, il valore etico del lavoro e la sua vera valenza, il sesso, la maternità come sentire prima che come agire. Non ultimo, il senso dei legami. Tramite il coro di voci, la riflessione nel lettore (donna o uomo) prende vita, portandolo a interrogarsi e confrontarsi, sia col proprio vissuto sia con la pluralità della scena letteraria.

Pare sottolineare implicitamente, a mio avviso, la Serrano, che ogni donna indipendente è una donna davvero realizzata, a prescindere dalla realizzazione nella vita di coppia o nel lavoro. Componente di questa indipendenza è la solitudine, intesa come punto di forza e trampolino di lancio, mai come condizione di negazione di sé rispetto al mondo. Anzi: la solitudine come strumento per una piena e autentica appropriazione di sé e del mondo.

Il valore degli esseri umani sta nella loro capacità di separarsi dagli altri, di essere indipendenti, di appartenere a se stessi e non al branco.

Allo stesso tempo, però, pare sottolineare che indipendenti non significhi distintee-disgiunte dagli altri. Anzi, tramite le voci delle protagoniste, la Serrano ci ricorda che non potremmo mai vivere senza legami con gli altri, col nostro passato, con quelle che siamo state e con chi ci ha accompagnate nel processo di crescita e cambiamento. Ad accompagnare queste donne nel loro percorso fino all’incontro con Natasha ci sono stati uomini: i loro padri, i loro mariti, i loro amanti, i loro figli, o degli sconosciuti. Non sempre figure positive, anzi. Le protagoniste della Serrano raccontano delle violenze, dei soprusi, degli abbandoni, delle mancanze consapevolmente esercitate. Senza sentirsi né risultare vittime, ma eroine capaci di testimoniare la forza della rivincita.

Però, nonostante tutto, non posso dire di non essere stata felice. Sono stata pazza, coraggiosa e sfrenata e me la sono goduta alla grande. Se il mio destino era soffrire, allora quel cazzo di destino si è sbagliato ed è rimasto a bocca asciutta.

Sono donne che hanno spezzato le catene, anche se questo significa soffrire. Ma ogni sofferenza è un nuovo partorire, un nuovo rinascere, soprattutto quando quella sofferenza è vissuta attivamente. La psicoterapeuta lo sottolinea:

Da quel mollare gli ormeggi a volte nascono opere magnifiche.

Mollare gli ormeggi: prendere il largo e nuotare da sé in acque nuove. Sappiamo bene che quando si nuota verso il mare aperto, a tratti ci si volta sempre indietro, per toccare con lo sguardo la riva, il punto di partenza, dalla parte opposta dell’orizzonte inseguito. Proprio come quando, nella frenesia quotidiana, sospendiamo tutto per un attimo e guardiamo indietro nei nostri anni.

Il passato è un rifugio sicuro. Il passato è una costante tentazione. E tuttavia il futuro è l’unico posto dove possiamo andare.

Cosa conta, nell’esistenza di tutte queste donne? Cosa testimonia il racconto della loro vita, passando per traumi o malattie emotive che hanno determinato l’esigenza di un percorso psicoterapeutico?

I movimenti concreti della vita quotidiana – risponde Andrea, la grande donna d’affari e di successo con una meravigliosa famiglia e un marito che la ama, ma dalla rabbia indecifrabile che gli altri le dicono di avere sul volto, il motivo che l’ha condotta da Natasha. I movimenti concreti: gli unici che impediscono di fermarsi, arrendersi.

Che esercizio stiamo facendo Natasha? (…) È  questo che importa: i piccoli movimenti concreti della vita quotidiana. L’importante è che, quando lei – la vita – verrà a cercarmi, in qualunque posto io sia, non mi trovi sconfitta.

Nei movimenti concreti delle donne c’è il lavoro. Cosa è davvero il lavoro, per noi?

Come ci difendiamo con il lavoro! E come saremmo esposti alla nudità senza di lui!

Lavorare. È  la mia costante scusa per vivere. Ma adesso ero nel deserto per pensare, o per ricordare.

Il lavoro, la carriera, l’affermazione professionale: questo conta per alcune delle protagoniste. Tutte fanno quello che è nelle proprie corde, nelle proprie possibilità. Quelle già in pensione ascoltano le più giovani. Tutte sono sbocciate in modo diverso, ognuna in base alle proprie potenzialità, ai propri talenti. E il talento cos’è? A rispondere sempre Andrea, la grande donna manager di sé stessa:

Il talento è un titolo di responsabilità.

Nessuno può negarlo: riconoscere il proprio talento comporta doveri, e rispondere ai propri doveri richiama il senso di responsabilità.

Indubbiamente ci vuol talento anche nel ri-conoscersi per quello che si è, anche nell’ammettere i propri limiti. Insomma, ci vuole talento nell’accettarsi e amarsi “a prescindere”.

Ma cos’è che ci permette di raggiungere questo amore per sé che di certo non è un paradiso, il più delle volte? Un viaggio: un viaggio dentro di sé, con se stesse, per se stesse.

Qualcuna si cerca in mille luoghi diversi, e alla fine trova sempre la propria inquietudine.

Viaggio con curiosità. Con la speranza di trovare serenità da qualche parte.

Arrivo in un posto per andarmene, non per restarci.

Altre, invece, hanno compreso il segreto: il viaggio vero è guardarsi dentro, alleggerire il carico, eliminare il superfluo. Avere un cuore più umano, più materno forse, anche con se stesse.

Delle nove pazienti-protagoniste, alcune sono separate, altre sposate, altre in cerca del proprio uomo, altre si chiedono “dove siano, questi uomini”. Una di loro ha perso per sempre il suo grande amore: il suo marito e padre dei suoi figli, e lo aspetta. Da anni. Racconta così la mancanza dell’unico uomo che desidera:

Avevo voglia di abbracciarlo. E avevo voglia di tutte quelle cose che non si dicono. (…) Sapete cos’è che ammazza? Il silenzio. È questo che ti ammazza. (…) Dove sei, amore mio? Dove sei che non mi senti? (…) Certi giorni mi sembra di sentire il Carlos. Tu che cosa hai fatto, Luisa? mi chiede. Ho aspettato, rispondo. Ti ho aspettato tutti i giorni. Non pensavo che una cosa simile potesse succedere, caro. (…) Non muore nessuno per non avere un uomo. Però sono stanca. Sono stanca. Molto stanca.

Cos’è un marito? – ci si chiede allora. Due differenti accezioni emergono: agli antipodi, ovviamente. Eppure, pur non essendo sposata, sono sicura di non sbagliare quando credo che in ogni donna queste due accezioni coesistano contemporaneamente e pacificamente.

Un marito è un luogo. Un luogo di solidità. E di purezza anche, se una s’impegna.

…per altre non è proprio così, piuttosto è un luogo scomodo. Del resto, come dar loro torto? Certi mariti non sono uomini, ma maschietti, bambini cresciuti, per cui le donne non sono che delle mamme, se non delle badanti:

E quando rimasi sola cominciai a provare un enorme sollievo. Mai più una partita di calcio alla tele. mai più un uomo sdraiato sul letto con il telecomando in mano e lo sguardo perso. Mai più il ronzio di sottofondo della televisione perennemente accesa. Mai più i tappi nelle orecchie per potersi addormentare. Mai più cercarsi un posto dove andare a leggere un libro perché in camera tua non è  possibile. Mai più fare a gara con la sua squadra del cuore per aggiudicarsi un attimo di attenzione.

Però la risposta che più condivido è quella di Andrea (sempre lei, la più realizzata): perché la nostra indipendenza, senza una zona franca di intimità e condivisione essenziale, è incompleta. Non si cresce senza confronto; ed è bello crescere e cambiare confrontandosi con un punto fermo diverso da noi: un uomo presente davvero nelle nostre esistenze, anche nelle nostre indipendenze: un marito – io credo.

Andrea marito 1

Andrea marito 2

 

Chi invece un marito non ce l’ha e nemmeno lo cerca, lo dichiara così:

Se avere un uomo è un fatto di prestigio, un di più che ti porti dietro, un cappotto di buon taglio  che cade elegantemente e non importa se tiene caldo, io preferisco avere freddo.

… ma avere un uomo nella propria vita, decidere di averlo e sceglierlo – secondo me – anche questo è un viaggio, un lavoro, un talento. Un rischio, anche. E si sa che…

Senza rischiare non vai da nessuna parte.

Una che un uomo proprio non lo cerca è Lupe, la più giovane del gruppo, adolescente e omosessuale. Ripercorrendo tutte le tappe che l’hanno condotta alla conoscenza della propria identità sessuale e al coming-out, con quegli adulti impiccioni e incapaci di confidare nelle giovani generazioni, mi ha fatto sorridere quando ha riportato il dialogo con suo padre, nel giorno in cui ha dovuto dichiarare ai genitori la propria omosessualità:

Lupe e suo padre

Qualcuna di loro si lamenta delle altre femmine insipide, qualcun’altra precisa la sottile differenza tra sentimenti e sentimentalismi; un’altra, poi, riporta le parole di una sua amica che al sesso ha definitivamente rinunciato.

Mi fanno ridere certe fighette che si lamentano sempre, si lamentano di ogni cosa, di tutto e per tutto, quelle teste di cavolo.

La sorella di Jennifer, che si chiama Doris ed è di poco più anziana di me. Mi ha detto: a me là sotto si è chiuso tutto, le grandi e le piccole labbra mi sono salite su per la schiena e adesso ho un bel paio d’ali!

Non mancano i temi della morte, della difficoltà nell’amare un figlio frutto di una violenza, della grande fatica emotiva e fisica di essere responsabili del destino di questi figli. Non manca la donna cresciuta in una famiglia molto benestante ed ereditiera di un patrimonio che le consente di scrivere e vivere come vuole. Ed è, questa protagonista, una tosta che la pensa come me sul femminismo:

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Si ride, a tratti, con questo libro, e si riflette, passando per quello che più fa male. “Eh, mon chérie, c’est la vie! Eh, miei cari, é la vita!”, come dice lo scrittore protagonista del mio secondo romanzo.

 Comunque se Dio ha dotato la gente di un po’ d’elasticità, se la sono accaparrata le donne.Per gli uomini non è rimasta. Non cambiano. Solo con il Prozac, se riesci a farglielo prendere.

Lo guardai allontanarsi e pensai com’è spaventoso vedere un uomo lucido e intelligente che diventa un idiota nel giro di un secondo.

 

Il lungo pomeriggio delle vicende del romanzo finisce. Dietro i vetri di una finestra c’è Natasha. Le ha salutate una per una, a un tratto è comparsa per regalare a ognuna delle nuove parole, bisbigliate in segreto nei loro orecchi, almeno così dice furtivamente la Serrano. Le guarda attraversare il viale dell’ospedale che ospita il suo studio per risalire sul pulmino che le riporterà a casa.

Se le immagina mentre camminano lontano da lei con un passo più lieve, sotto le stelle: non quelle che conoscono ma quelle che stanno nascendo, originate dalla morte delle altre.

Sono guarite? – vi chiederete e vi chiedo, sorridendo e avvertendo già nostalgia per tutte loro.

Come ho scoperto questo meraviglioso romanzo? Ero in Salento, arrivata senza libri per mia volontà. Perché volevo staccare la spina: niente libri e niente taccuini su cui scrivere. Mi sono annoiata dopo tre giorni e così son corsa in libreria. “Dieci donne” era l’unica trama che mi affascinasse tra i titoli disponibili, benché la grafica di copertina me ne allontanasse (sono esteta assai, pure con le copertine dei libri). L’ho letto tra diversi paesi salentini e durante i miei giri nelle Marche, interrompendone a un tratto la lettura per dedicarmi alle opere di due autori che ho presentato all’evento letterario annuale “Libri nel Borgo Antico” di Bisceglie, che mi ha sempre ospitato come autrice ma che quest’anno mi ha voluta come conduttrice del dialogo su altre opere.

In quella pausa forzata, le protagoniste della Serrano mi mancavano.

Grazie alle donne create (o prese in prestito dalla vita reale?) dall’autrice, ho realizzato così una grande verità. In realtà già viveva in me, anche se sedimentata sotto strati e strati di pensieri e considerazioni.  Le donne consapevoli di sé e della propria storia sono donne salve: questo mi è divenuto chiaro leggendo “Dieci donne”, lavoro scritto bene e talmente intenso da strapparmi più di una lacrima e un pianto vero e proprio. Quando un uomo ha detto a una donna “…facciamo un atto di tenerezza”. A dirlo era un uomo che invitava la sua donna a portare avanti una gravidanza non programmata né desiderata, consapevole del fatto che ad accogliere quella nuova vita fosse il corpo di lei. E quella lei era lei, Natasha.

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Ad ogni donna, così come ad ogni uomo che mi sta leggendo, vorrei sottolineare queste parole, pronunciate da una protagonista madre di due ragazze, anche se possono risultare banali:

L’unica condizione perché una vita come la mia possa funzionare è star bene con se stesse. Confidare in sé. Senza risorse interiori, non c’è niente da fare.(…) La solitudine non è mai sostanziale. È relativa, perché le presenze che mi accompagnano sono di una solidità impressionante. Lo sono davvero. Quindi concludo che questo è l’amore, né più né meno. La forza di queste presenze. Quegli adorabili fantasmi con i quali prendi il tè o bevi un bicchiere verso sera.

Le sottolineo perché io, fondamentalmente, non credo che siamo isole incapaci di creare ponti durevoli verso altre isole. Certo, sono poche le isole con cui possiamo formare meravigliosi arcipelaghi capaci di resistere alle intemperie del tempo, però non per questo dobbiamo rassegnarci o desistere. E di fronte alla fragilità umana, alle nostre debolezze e alle differenze che spesso ci allontanano dall’altro, dobbiamo ricordarci le parole di una delle tante voci che si narrano:

Abbiamo (tutti) la stessa vocazione per la felicità.

Chi è Natasha e perché non compare a raccontarsi tra le sue pazienti in prima persona? Dovete leggere il libro per scoprirlo, io non vi rivelerò nulla, come mia abitudine per le parti più belle dei libri che decido di condividere con voi. Posso solo dirvi che la sua storia è bellissima, s’intreccia con altre vite, affonda le radici nell’esistenza di altre persone, ed è fatta di amore – “perché l’amore salva”, dice qualcuno. Solo una frase vi riporto, per farla entrare nel vostro cuore e indurvi a desiderare di “incontrarla”:

Non fate rumore intorno a lei, perché è alla ricerca del silenzio.

 

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– Cosa fai di bello? – mi chiede lui dall’altro capo del telefono. Mi ha telefonato tramite Whatsapp, è a Dubai. Sempre lui, l’uomo del mistero che nessuno conosce, sì.

– Sto finendo di recensire un libro.

– Quale?

– Dieci donne, di Marcela Serrano. Un’autrice sudamericana.

– Ah, bravissima, la conosco! Fai così: scrivi questa citazione: quattro puntini…

– Veramente i punti di sospensione sono tre.

– …va bene. Tre puntini, apri le virgolette… – e conclude il suo suggerimento.

– Aspetta, lo scrivo direttamente ora che me lo dici, sono col computer alla mano. E guarda che chiudo il mio pezzo con la tua citazione, eh.

– Domani voglio vedere! Io ho amato tanto il Brasile, te l’ho già detto. E poi come un c******e ho accettato il trasferimento.

Gli uomini intelligenti parlano alle donne senza troppi giri di parole. Sanno scherzare con loro, ridere, parlare, ascoltarle, comprenderle autenticamente. Le stimano, e sono consapevoli del loro valore. Né hanno resistenza alcuna nell’ammetterlo a gran voce.

Gli uomini così sanno far provare alle donne quella sensazione dolcissima che in portoghese brasiliano si dice:   … “saudade” …

 


 

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Testi virgolettati e foto dei brani: tratti da “Dieci donne”, Marcela Serrano, Feltrinelli

Testo: Luana Lamparelli

Luana Lamparelli

 

Luana Lamparelli
Luana Lamparelli, pugliese, autrice e scrittrice, collabora con artisti, scrive racconti romanzi e poesie, cura rubriche.

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