Non esiste cristallo senza difetto: a insegnarlo, la chimica della materia, e pure la fisica.
La scelta del titolo dei racconti d’esordio di Concetta Tandoi, Difetti cristallini, non è casuale: le donne che li abitano hanno difetti imprecisabili come solo alcune metafore di vita sanno essere, appaiono a tratti così impenetrabili da poter essere definiti, paradossalmente, perfetti.
Un fotografo: uno sguardo sul mondo come una carezza e una saetta al tempo stesso, il guizzo della mente che coglie l’insolito dell’ordinario e lo declina velocemente, tra linee invisibili e prospettive.
Un fotografo: un occhio strizzato dietro l’obiettivo, un po’ come l’occhio dell’orologiaio strizzato nella piccola lente d’ingrandimento, per riparare i meccanismi di microcosmi millimetrici.
Entrambi guardano il tempo come nessun altro: il primo per fermarlo, il secondo per dargli vita oltre gli inceppi della Vita.
La villa a Cervo era appartenuta ai trisavoli di Eva.
Abbandonata da decenni, un bel giorno
aveva chiesto a suo padre se potesse sistemarla. Aveva un’idea precisa:
ristrutturarla, arredarla, riempirla di fiori e piante, farne la sua
roccaforte.
Nessuno l’avrebbe mai reclamata: né i
suoi genitori, né i suoi fratelli, per cui tanto valeva applicare anche a quell’immobile
il suo motto: dare valore a quello che si ha.
– Dimmi, stai annusando anche tu
una rosa inglese come me, in questo momento?
Che lui scoprisse dove fosse, l’aveva previsto. Quello che Eva non poteva immaginare era che lui la prendesse in contropiede in quella maniera, irrompendo nella sua quiete con un’immagine così forte e sensuale.
Ettore, sempre lui.
Lei immagina la scena dall’altra
parte della cornetta, sospira, esita un attimo.
– E così, anche in remoto, siete riuscite a sollevare un bel polverone… – aveva tirato le somme Eva, davanti al monitor del computer, dando l’ultima passata di lima sulle unghie e soffiandoci su.
– Sì, zia Eva, ma mica noi
volevamo offendere. È stata lei.
– E le vostre mamme vi hanno
chiesto come siano andati i fatti?
– No.
– Le solite. Va bene, ragazze,
adesso non pensateci più. Lei vi ha offese, voi vi siete difese. Brave! Ricordate
però: sempre avere garbo e stile, mai scendere in basso, mai inventare
cattiverie. Non ne vale la pena. La verità brucia più di tutto.
Perché se penso a un colore per l’infinito viaggiare dell’uomo, non può che essere l’azzurro
(dal romanzo “Piccoli silenzi desiderabili”, 2014)
C’è una comunicazione molto più sottile, immediata, istintiva e intuitiva.
Si basa sul riconoscersi a pelle, entrare in empatia, sentire e percepire in modo differente, lasciando a margine del foglio su cui scriveremmo “io” tutto quello che ci riguarda, scrivendo soltanto “tu, noi” nel testo. C’è una comunicazione che è fatta di sguardi che si incrociano e si riconoscono tra numerosi volti.
Un gesto avvicina o respinge, una parola ha una vibrazione molto più potente del suo significato, uno sciocco schiocco di dita scombussola un ordine preciso. Un mondo di vetro può andare in frantumi per un’eco muta.
Da un paese completamente immobile, dove il silenzio racconta di mille voci in attesa, io ho solo voglia di contemplare. Ho delle fragole tra i capelli, il disordine delle cose belle nel sorriso, la calma tra le costole. Da qualche parte c’è una barca capovolta: un’astronave per volare. I confini geografici li lascio alle cartine, quelle di tornasole mi raccontano di distanze nulle, d’improvviso risuonano parole in un’altra lingua. A tratti la parlo senza averla studiata mai. Da più punti del passato giungono ora daccapo alla mente: scritte in questa porzione di spazio, hanno scavalcato i cieli, raggiunto altre vette, per essere tradotte altrove da altra mano.
Ogni lingua sa alterare i sapori delle parole, un po’ come il ricordo che pare nostalgico, invece è brio di coriandoli. Così un po’ si perde quanto nel testo e nelle intenzioni è “dovuto”.
Sanno di sorrisi e lacrime, tutti tenaci però.
Le dedico alla mia Ruvo, che è la mia terra, il mio punto di partenza per tutto e il mio punto di approdo puntuale.
Da un balcone allungo sguardi che sanno volare lontano, planare meglio se li chiudo. Ho solo voglia di contemplare del silenzio le rose. Sanno di risate, scherzi, notti tirate fino a tardi, feste in maschera, in spiaggia, cene a tema e serate a lume di candela. Custodiscono conversazioni sussurrate e voci sguaiate. Ho vent’anni, ne ho trentadue, ne ho dieci, ne ho cinque, quanti ne avrò domani? Per oggi voglio solo contemplare del silenzio le rose.
Ti mando un bacio, Ruvo. Ti mando un bacio, mondo. Per oggi ho voglia solo di accarezzare tutto con lo sguardo.
Luana
Pensando a tutto ciò, ho deciso di regalare poi la mia poesia “Del silenzio le rose” alla mia città d’origine, insieme ad altre parole che raccontano di un vissuto strettamente personale, io che non amo molto parlare davvero di me e di quel che di me non si sa, a dispetto di quel che si possa pensare. Ho deciso di farlo perché siamo tutti smarriti, e in questo siamo tutti uniti: dedico queste mie parole a tutti coloro che conosco o che ho solo incontrato, con la speranza che volino lontano, abbraccino e incoraggino chi attende un abbraccio, una carezza. Sempre qui, per chiunque voglia:
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In questi giorni sicuramente stiamo leggendo tutti un po’ di più e siamo sempre sintonizzati per restare aggiornati in tempo reale. Mai come prima d’ora, data l’emergenza globale a cui ci inchioda il Coronavirus, il linguaggio di chi ci parla – dai medici ai politici agli scienziati agli esperti – deve essere chiaro, diretto, immediato, per poter avere una comunicazione efficace ed efficiente che raggiunga tutte le fasce della popolazione. Il linguaggio, mai come oggi, deve farsi ed essere democratico.
Questa considerazione mi ha ricordato un confronto avuto con lo scrittore Gianrico Carofiglio su un suo saggio, “Con parole precise” (Laterza, 2015) e l’intervista che ho curato per un giornale.
La ripropongo, per la prima volta in versione integrale.
Chissà, magari vi ricorda di avere un libro dell’autore che aspetta ancora, in un angolo di casa, di essere letto.
Pensare al futuro, oggi. Vivere seminando per il futuro, oggi.
Abbiamo domande, paure, distanze da colmare e attese dilatate. Tutto scorre in un tempo impreciso, più che imperfetto.
Ho scritto “Asteroide Centocinquantadue” nel 2017, per un’opera collettiva sul tema del “futuro” mai pubblicata. In questi giorni difficili ho deciso di regalarlo pubblicandolo qui per la prima volta.
Ho preso questa decisione confrontandomi con l’art director Alessandro Pession. La fotografia che accompagna questo racconto è sua, scattata appositamente in questi giorni.
Questi giorni che sono di vicinanze sentite e distanze spazio-temporali: in questo siamo tutti uguali, tutti uniti.