Amélie Nothomb – Né di Eva né di Adamo

 

 

InstagramCapture_9b1075b3-cadc-42da-8d75-80a59e9fe4ed

 

Subito dopo “Memorie di una geisha” di Arthur Golden, così come avevo deciso già prima di ultimarlo, ho letto “Né di Eva né di Adamo” di Amélie Nothomb. Alcune voci autorevoli del panorama letterario (ovvero: uno scrittore che è anche un grande intellettuale, mio amico e da me molto stimato), con il dialetto del suo paese aveva risposto alle mie intenzioni in merito: “Ma che cazzo andate leggendo?!”.

Non desisteva quel desiderio in me, così ho cominciato a leggerlo, anche per scoprire come mai tutta quella fretta subito dopo un signor romanzo longseller, “Memorie di una geisha” appunto. Leggendo, ho capito: un sottile filo rosso lega i due libri. Grazie  a quel filo rosso, mi sono ritrovata nuovamente in Giappone, seppure ai giorni nostri (la storia è ambientata negli anni 90 del secolo scorso) e con un’autrice che raccontava un pezzo della propria storia, quando non era ancora una scrittrice ma sognava di diventarlo. Non è mancato nemmeno un ponte chiaro tra i due libri: infatti la Nothomb, a un tratto, parla delle geishe:

 

WP_20150629_007

 

In fondo alle cose lancinanti c’è una certa voluttà. (pg. 110)

“Né di Eva né di Adamo” narra l’esperienza in Giappone di Amélie Nothomb, alle prese con le sfide che decide di affrontare e con una storia d’amore iniziata tramite un annuncio per guadagnare qualcosa: si propone come insegnante di francese a studenti giapponesi. Conosce così quello che diventerà il suo fidanzato giapponese, più piccolo di lei di solo un anno. Una storia lineare, vissuta direi più “interamente” che non “intensamente”, perché quello che connota soprattutto la protagonista è la costante presenza a sé stessa. Niente lacrime, niente sospiri da consolare, niente notti insonni, niente dubbi amletici o esistenziali. No, niente di tutto ciò. Una storia lineare vissuta in pieno rispetto di sé da parte di entrambi.

 

Rinri mi prese la mano.

– Passi il Natale con me? – mi chiese.

– D’accordo.

– Dal 23 al 26 ti porto a fare un viaggio.

 

Una storia che fa bene leggere proprio per la sua profonda semplicità, in fondo quello che credo possa far bene a molti di noi. Una non-favola, perchè non c’è una principessa da salvare, eppure c’è un principe premuroso e attento. Una principessa autonoma che ama le scalate in montagna e sogna di diventare una scrittrice, che continua ad andare a lavoro sopportando il mobbing anche se lui le dice che sposandolo non avrà più di questi problemi, perchè non le mancherebbe nulla e provvederà lui a tutto. Non una questione di principi in virtù dell’emancipazione femminile, ma una scelta consapevole e responsabile di chi si vuol essere, senza schemi.

 

Una studentessa canadese mi chiese se avrei sposato Rinri.

– Non ne ho idea.

-Sta’ attenta. Queste unioni generano figli atroci.

(…)

– Non credo che avrò dei figli.

– Ah. E perchè? Non è mica normale.

Me ne andai canticchiando dentro di me la canzone di Brassens: “No, alla gente per bene non piace che / uno segua una strada diversa dalla loro”.

Anche la nostra protagonista Amélie ha un desiderio e confessa:

Un desiderio è tanto più violento quanto se ne ignora l’oggetto. (pg. 150)

Da brava scrittrice sa che:

I peggiori incidenti sono quelli legati al linguaggio. (pg.152)

e da brava scalatrice di montagne nonché professionista di resistenza fisica asserisce una frase che tanto mi piace perchè ne condivido il senso ultimo:

Dicono che fuggire non sia un gesto molto nobile. Peccato, è così piacevole. La fuga dà la più grande sensazione di libertà che si possa sperimentare. (pg. 161)

In questi ultime due rivelazioni di sè ho ritrovato molto di me. Così come anche capisco cosa intenda quando afferma:

Il 10 gennaio 1991, ero un’addetta ai bagni che si era appena licenziata. Il 9 dicembre 1996, ero una scrittrice che andava a rispondere alle domande dei giornalisti. A un livello simile non si poteva più parlare di ascesa sociale, ma di traffico di identità. (pg.166)

Ma torniamo alla storia d’amore. Come finisce questo libro? Finisce in un modo che non vi rivelerò, però che posso definirvi: finisce in un modo profondo. Il senso autentico di quel che si vive è spesso nei fatti, nei vissuti condivisi, e non nelle parole che ci si dice o che si usano per raccontare quei fatti. Perché spesso le parole son menzognere, fatevelo dire da me che le uso per lavorare e che ne sento tante, ma davvero tante, per il mio lavoro di educatrice.

Aveva trovato le parole giuste. Ci aveva messo più di sette anni a trovarle, ma non era troppo tardi. (…) E quando qualcuno mi dice la parola giusta, finalmente divento capace di sentire. (pg. 168)

In questo bel libro per rilassare la mente, oltre a sorrisi divertiti e risate per l’irriverenza di alcuni personaggi, non mancano frasi che sortiscono l’effetto del riscatto. Come questa:

Lo spazio ci libera da tutto. (pg. 126)

E io aggiungo: anche la lettura.

 

Foto e testi: Luana Lamparelli

© COPYRIGHT 2015 | TUTTI I DIRITTI RISERVATI | LUANALAMPARELLI.IT

 

 

Luana Lamparelli
Luana Lamparelli, pugliese, autrice e scrittrice, collabora con artisti, scrive racconti romanzi e poesie, cura rubriche.

Leave a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *