Erri De Luca, La natura esposta

Il primo libro letto in questo 2018 appena iniziato è “La natura esposta” di Erri De Luca.

Il protagonista non ha nome, almeno non per il lettore. È un uomo di montagna, scultore talentuoso (a detta di una donna ora non più nella sua vita) ma riservato, senza pretese né ambizione.

Chi credi di essere, se non sei brillante e magnifico? Siamo i bambini della divinità. Far la parte degli incapaci non rende giustizia al nostro creatore. Non è giusto diminuirsi, per non disturbare gli altri intorno a noi. Siamo fatti per splendere come fanno i bambini. Dobbiamo manifestare con gratitudine i doni ricevuti. Quando tu sei brillante e magnifico, incoraggi gli altri a esserlo anche loro. (Erri De Luca, La Natura Esposta, pg. 81)

Per vivere ripara piccoli pezzi di statue rotte, lavora pezzi di legno che recupera durante escursioni e soprattutto accompagna oltre confine, passando tra i monti, tutta la gente che vuole andare altrove: gli immigrati, i clandestini. Non è il solo a farlo: altri due suoi amici di paese, il fabbro e il fornaio, hanno il suo stesso doppio lavoro. La sola differenza tra il protagonista e gli altri due è che lui restituisce i soldi quando giunti al momento del distacco, quello a partire dal quale i viaggiatori saranno al di là del confine e lui pronto a tornare indietro. Perché lo fa? Perché reputa che sia giusto così.

Quando la voce si sparge, è costretto a lasciare il villaggio di montagna. Per il suo esilio sceglie in un paese di mare, dove riceve un incarico: restaurare una statua di marmo che rappresenta il Cristo in croce ripristinandola a quel che era la reale intenzione dello scultore artefice. La statua, infatti, era originariamente nuda, ma col Concilio di Trento la Chiesa aveva fatto coprire con drappeggi tutte le parti intime scoperte.

Inizia così il vero viaggio del protagonista. Sempre abituato ad attraversare confini scalando montagne che conosce benissimo, si trova ora a scoprire e indagare le vere intenzioni dello scultore padre dell’opera affidatagli. L’espediente dell’arte, del lavoro artistico, diviene motivo di ricerca interiore, di dialogo con sé e con altre voci diverse da sé. Insieme al lavoro di restauro che procede, la vita di tutti i giorni a cui non possiamo sottrarci: perché ci viene a cercare. Come l’amore, o come la sua assenza.

Sembra quasi che De Luca abbia voluto trasporre nell’immagine dello scultore quella scrittore, creando analogie e parallelismi tra i due mestieri: ci si dedica anima e corpo a una storia non nostra, in qualche modo, da scoprire, osservare, codificare e infine completare col lavoro della scrittura, esattamente come accade allo scultore. La scultura è il risultato di un lavoro di sottrazione, come Michelangelo Buonarroti ben dichiarava; la scrittura è un lavoro di addizione: di parole, immagini da evocare, sentimenti da trasferire, in un certo senso tramandare. Non è un caso, secondo me, se il romanzo di De Luca termina esattamente quando il restauro è finito, quando la parte mancante, il sesso del Cristo (da qui il titolo dell’opera), è nuovamente parte integrante della statua. La scrittura ha scoperto l’ultima parola, che coincide con l’ultima azione dello scultore reastauratore.

Ci sono frasi bellissime, di una poesia disarmante, folgoranti perché scavano dentro di noi, fino alla parte nostra più delicata, più nascosta e segreta (quasi come l’intimità del Cristo), per accarezzarla.

L’universo mescola i suoi frammenti, niente è alieno. (Erri De Luca, La Natura Esposta, pg. 114)

(Erri De Luca, immagine dal web)

La fine del’inverno stiracchia di minuti la giornata. (Erri De Luca, La Natura Esposta, pg. 89)

 

‘Non sai perdere.’

Non rispondevo, però zitto pensavo il contrario. Lo so fare, so perdere tutto.

Adesso che non c’è, glielo dico nel buio. Avevi ragione, non so perderti. Continuo a strepitare in cuore come un pollo strozzato. Non succede due volte di essere amato con l’intesità di una missione. Non succede a molti di noi neanche una volta. (Erri De Luca, La Natura Esposta, pg. 39)

Durante il lavoro di restauro per riportare la statua alla sua originaria nudità, sottraendo il drappeggio in marmo aggiunto a posteriori, il protagonista racconta di sé. La creazione di una nuova nudità del Cristo procede di pari passo con un dialogo intimistico, una sorta di viaggio di scoperta. Con il narrarsi del protagonista, si scopre che ha perso un gemello a sei anni, ma entrambi in una certa maniera sono cresciuti insieme pur dopo la morte dell’altro. Perché possiede uno spazio anche per l’altro, chi resta. Uno spazio in cui parla, una voce che gli parla: questo continua a possedere chi ci lascia in chi resta.  E poiché tutti noi abbiamo perso qualcuno di cui però ancora sentiamo la voce, come una guida, con tutto l’amore che provava per noi, tutto questo ci avvicina ancor più al protagonista. Proprio così come la statua – con la sua storia e i suoi segreti scalfiti nel marmo – avvicina il protagonista ora al suo primo artefice, ora al Cristo, pur non essendo credente.

È primavera, ho svernato insieme a una statua. Cambiando di mano agli arnesi posso dire di avere scolpito a due mani. Abbiamo finito, le mani e io, la mano di mio fratello e la mia. La sua vita travolta prosegue in me. C’è spazio in ognuno per ospitare gli assenti.   (Erri De Luca, La natura esposta, pag.95)

In questo libro c’è l’umiltà, la parte più modesta di tutti coloro che hanno dovuto rinunciare a qualcosa di cui percepiscono l’eco tra il mare e le montagne, tra quegli spazi infiniti e sconfinati come il nostro Io più nostalgico. Così è l’immigrato musulmano esperto di Corano con cui si confronta il protagonista per conoscere meglio alcuni dettagli che, tramite il tatto, coglie sulla statua. Così sono gli immigrati, che tanto spesso svolgono lavori semplici, conducono vite isolate, eppure potrebbero insegnarci tanto, se solo anche noi fossimo umili di fronte all’ascolto, al racconto. Perché spesso provengono da storie molto più ricche del lavoro silenzioso che svolgono nella dignità della semplicità.

Di notte il mare mi metteva nostalgia di terra. (…) Non conosco nessuno senza nostalgia di un’ora e di qualcuno. Sul peschereccio di notte ne avevo così tanta da far diventare voci le onde. E rispondevo in berbero, la mia lingua d’infanzia. (Erri De Luca, La natura esposta, pgg. 96-97)

Non a caso, il protagonista riuscirà a comprendere le intenzioni dell’autore della statua grazie al confronto con tre figure differenti, tre uomini con cui dialoga in momenti distinti: un rabbino, un musulmano e il prete che lo ingaggia per l’impresa. Per dirla con Lévinas, “l‘altro è apertura all’infinito”, e questo infinito nel romanzo di De Luca si avvera autenticamente, quasi un’epifania a cui la pazienza e la dedizione approdano; coincide con la statua che ritrova la sua originalità grazie alla sinergia di più voci capaci di coesistere nonostante le differenze culturali.

C’è l’amicizia vera, insieme all’inganno e alla salvezza, in questo romanzo di De Luca. Ci sono, a parer mio, tutti gli elementi della storia del Cristo, che sono poi gli elementi dell’umanità spogliata di tutte le sue sovrastrutture. Denudata, esposta.

 

“La Natura Esposta” è per me uno di quei pochi libri che, dopo la lettura, richiedono Silenzio, quel silenzio a me tanto caro dove ogni parola brilla e si fa scintilla per altri pensieri e sentieri dentro di noi; allora restare in silenzio si fa necessario per assaporare l’intera storia fino in fondo, come merita.

Non ho amato questo libro da subito: come le migliori persone, richiede tempo per rivelarsi, per farsi conoscere nella sua unicità, per farsi amare.

Ne ho letto la prima pagina il primo Gennaio, in aereo, sorvolando l’Italia. Non è il primo viaggio che fa:  è infatti un caro ricordo del mio viaggio in Sardegna, Isola della Maddalena, durante lo scorso Giugno 2017. Adesso molte sue frasi mi accompagneranno in diversi momenti, come un’eco, avvicinandomi a luoghi solo miei e riconciliandomi col mondo. Perché molto spesso abbiamo bisogno di sapere che non siamo gli unici a osservare le stelle che splendono in cielo di notte con quello sguardo lì.

Vorrei dire grazie a Erri De Luca.

Chissà, forse un giorno glielo dirò.

 

Foto ©circolamparelli

 

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LA POESIA, ALMENO QUELLA

La poesia, questa mano più grande di me, questa bocca che parla, questo cuore che sente quando io non voglio sentire, questo occhio che guarda cose invisibili da prospettive sempre nuove e imprevedibili.
La poesia, questa bambina, voce imponente che a volte mi rende impotente dei gesti che vorrei – costringendomi a sedermi, schiena ricurva, polso che scivola su fogli non più immacolati.
La poesia – io non la volevo, ma mi tende agguati, ma la cerco, ma la amo. Non sempre mi sorprende, di rado mi commuove, più spesso mi fa storcere il naso. Ma esiste – che io lo voglia o no, è il sasso in cui sempre inciampo.

La poesia – e mi sospinge dita a girar pagine, a scrivere ancora, a cercare altrove così come a guardarmi dentro.

No, non la smetto.

(©Luana Lamparelli 2017)

Queste parole, nate come un flusso repentino su un freddo monitor, le ho poi scritte a mano. Non solo. “Cerca su internet le light novel, dagli un’occhiata”, mi ha detto un giorno qualcuno. Da quel giorno ho ripreso a disegnare. Ebbene, a queste stesse parole ho aggiunto due disegni piccoli. Ne è venuta fuori una pagina particolare del mio grande quaderno, quello che porto sempre in borsa, su cui appunto tutto, e che qualcuno ha visto steso su tavolini di bar mentre parlavo con altra gente. Eccola qui, a portata di click.

 

Oggi è il 21 Marzo, giornata mondiale della poesia. Da tempo, per questa giornata, avevo iniziato a cercare poesie. Alcune mi hanno colpita più di altre, tanto da decidere di inserirle in questa pagina, fotografate. Ho anche deciso di non limitarmi a questa giornata: aggiungerò foto di tutte le poesie che nel tempo troverò. Le caricherò man mano che quelle belle davvero – belle per me, umilmente – mi colpiranno, verranno a cercarmi, spunteranno.

Qui di seguito riporto i titoli insieme al nome degli autori dei versi che, in foto, seguono:

  1. DUE DI UNO, racconto tratto da “Inventario dei sogni” di Vitantonio Lillo.
  2. INCONTRO SOGNATO IN FORMA DI HAIKU, racconto tratto da “Inventario dei sogni” di Vitantonio Lillo.
  3. NON CI SALVEREMO, poesia tratta da “Un mondo come un clamoroso errore” di Paolo Polvani.
  4. A T., poesia tratta da “Bestiario fiorito” di Vitantonio Lillo.

 

 

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HOUSTON, LA PRIMAVERA

 

(Parte la solita musichetta mentre parlo con Houston. Oggi suona Yann Tiersen, se fate click lo sentite anche voi.)

HOUSTON, DA QUANTO TEMPO È CHE NON CI SENTIAMO?

Sì, lo so: sono io la latitante. Ma ti penso, cosa credi? Non ti scrivo, è solo questo.

Come tante mail che recito nella mia mente, tra la frenesia e l’andirivieni del quotidiano, e che sempre rimando: a un altro momento che puntualmente non arriva mai. Teresa a Parigi, lei che mi chiamava “Lulùdaimillecolori”, è forse l’unica che può vantarsi di una mia certa costanza imprecisa.

Suvvia, non fare capricci: ti scrivo oggi ch’è un giorno speciale: te ne devi rallegrare!

Ho un sacco di colori per te, profumano di primavera.

È arrivata anche quest’anno, sai?

Sì, anche quest’anno. Dopo le dimissioni di Renzi che ha preso peso. Sarà che dorme meglio, o per compensare un ego un po’ sgonfiato. Dopo la cattivissima campagna pubblicitaria della Lorenzin sulle mancate procreazioni. Cattivissima non per il messaggio di fondo (no, per quello l’aggettivo giusto è “penosa”), ma perché secondo me i grafici che l’hanno ideata si sono divertiti un sacco a fargliela così come la conosciamo noi. Insomma, i cittadini ai politici qualche torto glielo devono pur fare, o no? E poi sì… non è proprio bella questa nuova stagione per il PD, ma anche per loro è il 21 di Marzo.

Anche oggi la Primavera è scesa come petali leggeri sulle teste dei disoccupati, dei giovani disperati, dei genitori che ogni giorno si dan forza, degli anziani che non possono fare la spesa e allora frugano tra la spazzatura, “ma buttar cibo non è reato, recuperarlo dai cassonetti invece sì” fa notare giustamente un tedesco proprio figo. (No, Houston, non uso “figo” per il suo cervello. Che ovviamente apprezzo un sacco.)

Si è posata, come una mano che protegge senza farsene accorgere, sui bambini che crescono diversi gli uni dagli altri, e non lo sanno che la felicità ha lo stesso suono, nel cuore, anche se non la stessa sostanza materiale. Lo scopriranno?

È arrivata a ricoprire le terre che germoglieranno in grano dorato e su cui magari qualcuno farà un picnic; sulle sponde di spiagge, di laghi, di fiumi; tra i cieli solcati dagli aerei e gli oceani tagliati dalle navi. Tra i pesci, tra le api, tra le speranze e le illusioni.

Ha portato qualcosa di nuovo alle delusioni, forse è una promessa, perché se l’Inverno ha saputo cambiar pelle, allora pure noi riusciremo a farlo, un giorno.

Sì, Houston, è arrivata anche sui prati dei camposanti, e perdonami se non mi soffermo, ma lo sai che se una lacrima rischia di tradirmi, io la truffo facendomi buffona. Tu non vuoi mica che faccia la buffona, no? Ecco, appunto.

Houston, abbiamo un problema. Ci si scorda sempre troppo da dove si arriva, di chi si è stati, della bellezza della gentilezza, della forza dell’onestà, della brutalità dell’intelligenza. Sì, non mi sto sbagliando: l’intelligenza è brutale per chi crede di giocarci, d’ingannarci, di tradirci. Di avere il potere di ferirci. Alla fine sai come andrà? Che si ferirà con le sue stesse parole, in coerenza con quel che sostiene: “L’Universo ti restituirà tutto”. Ecco, le persone intelligenti sanno essere brutali: perché insieme a quel tutto, gli danno pure il resto, a questi truffatori. Che è una lezione di vita che non impareranno mai. Sì, Houston, la gente immatura continua tutt’oggi a non crescere. Così come i denti che spuntano nuovi ai bimbetti fanno un male cane. Solo che questi non se lo possono risparmiare, il dolore di diventar grandi; quegli altri invece sì. E si raggirano.

Houston, ma vedi che mi distrai? Quante domande che mi fai! Abbiamo tutti questi problemi, come ieri che era Inverno, anche oggi ch’è Primavera. Non posso dirti da quaggiù che li risolveremo, non posso garantirti che un futuro ti contatterò dicendoti anche io la frase originale storica che poi ti ha reso celebre seppur tradotta male. Insomma, non so se ti dirò “Abbiamo avuto un problema”, sottintendendo “ma ora è tutto risolto”. L’umanità non si risolverà mai. Manchiamo di rispetto e gentilezza, di onestà e lealtà, di schiettezza. Tutte cose che fanno rima con “freschezza”, ma anche questa Primavera soffierà leggera su panorami e paesaggi senza vedere il cambiamento che il mondo e i bambini meritano.

Non sono pessimista: è che lo tengo un poco per me, questo sogno che cullo in gran segreto. Così, magari… chissà, si avvera.

Però, Houston, non tutto è perduto.

E siccome di questo io son sicura, ho voluto cercare, nei giorni passati, per portarti la dimostrazione che è così. Non tutto è perduto. La poesia, per esempio.

Qualcuna nuova l’ho scritta, sì. Più d’una. Ma io non te ne donerò alcuna.

Nemmeno di altri, no. Ci avevo pensato, a esser sincera. Io volevo giungere a te con un mazzetto di fiori raccolti strada facendo, come quando ero bambina e da sola andavo all’asilo, non troppo distante da casa, e mia madre mi scrutava dalla finestra, e non lo so cosa pensava di me mentre io allungavo il braccio e strappavo via quelle macchie di colore dal verde cui appartenevano. Sì, me ne andavo in giro da sola, ma mica dai miei cinque anni! Ne avevo tre, la prima volta che me ne sono andata col mio triciclo. Poi sono arrivati i quattordici: in bici per la campagna, raggiungendo una mia amica, e mia madre non lo sapeva se fossi arrivata o no, allora i cellulari nemmeno potevamo sognarli!

Com’era bello il mondo, il mio paese: i bambini per strada coi palloni contro il portale della Cattedrale, piazza Castello abbacinata dal sole e vivace di grida e pallonate. Niente suonerie.

Houston, ecco: sai qual è il problema più grande? La tecnologia.

Anzi no: non è la tecnologia. Siamo noi: perché lei non ha colpa se, pur mettendo a nostra disposizione mille canali, noi non siamo capaci di far partire la telefonata o il messaggio che dovremmo, chiedere “scusa”, “come stai?”, “parliamo e ci chiariamo?”. Le strade sono mille, ma noi sappiamo solo perderci. E non da coraggiosi: no, da vigliacchi.

Houston, abbiamo un problema: l’Inverno è cambiato, s’è trasformato. Ha deciso di togliersi di dosso i vecchi panni , anche se s’era affezionato, anche se gli è costato fatica, e adesso noi lo chiamiamo Primavera. PRIMAVERA. Senti già la poesia del gelsomino, Hou’, senti, senti!

…e noi, Houston, saremo mai capaci di cambiare pelle, spogliarci delle parole dietro cui ci trinceriamo, farci nuovi, farci veri?

Houston, oggi avrei voluto portarti poesie: nuove, vecchie, mie, d’altri. D’altri soprattutto. Le ho cercate, sai? Ma poi mi son chiesta: basteranno mille o una sola poesia per alleviare tutto quello che ancora ci fa soffrire, per cancellare quello che purtroppo ricordiamo, per colmare il vuoto che sempre ci porteremo dentro?

Ho risposto. Perdonami se le mie mani sono scarne e disadorne.

Una poesia a volte non basta. È allora che ci vuole più fantasia.

E se nemmeno quella, allora il silenzio.

 

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Intervista a Paquito Catanzaro, autore di Quattro tre tre

Ormai manca poco perché il nuovo libro di Paquito Catanzaro, napoletano classe 1981, arrivi in libreria, dopo il successo del suo Quattro tre tre e di molte altre opere precedenti.

Simpatico, attento, intelligente e dinamico, l’autore Catanzaro possiede quelle caratteristiche proprie di chi scrive: la consapevolezza dei molteplici punti di vista sulla stessa realtà, l’ironia e la poesia che sempre convivono insieme. Tutto questo si ritrova nel suo libro, di cui oggi vi parlo. Ma anche nella sua biografia sulla quarta di copertina:

Paquito Catanzaro è nato a Torre del Greco nel 1981. Dopo aver vanamente provato a diventare un supereroe, ha scelto la professione di attore per realizzare il sogno di raccontare a voce alta storie, fiabe, aneddoti o fatti strani. Ha fondato nel 2011 la compagnia teatrale Parole Alate con la quale ha portato in scena numerosi spettacoli in veste di attore e regista. Ha partecipato alle antologie Storie di ordinaria residenza (Homo Scrivens 2013), Dei trenta e più modi di perdere l’ombrello (Homo Scrivens 2014) e al romanzo Forza Napoli! di Aldo Putignano (Giulio Perrone 2013). Vorrebbe completare la sua nota biografica con una frase a effetto, ma in questo momento proprio non gli viene in mente nulla.

 

QUATTRO TRE TRE è un titolo evocativo: subito pensiamo alla formazione in campo, già immaginiamo di leggere tra le pagine di primi tempi, falli, calci di rigore, arbitri che fischiano, allenatori che imprecano, tifosi che istigano e incoraggiano. Invece no.  Quattro tre tre ci dice solo che incontreremo quattro difensori, quattro centrocampisti, tre attaccanti. Non ci dice nulla però di quello che realmente la lettura ci rivelerà: storie di vita vera di colossi del calcio passati alla storia. Più quella di un allenatore e di un ragazzo che, col suo sogno, scandirà il primo tempo, l’intervallo e i minuti di recupero. Perché nella vita c’è sempre un tempo per recuperare.

Ho incontrato l’autore – alto, sorriso cordiale e accogliente, la parlata di chi non ti risparmierà nulla e la gentilezza nello sguardo – e insieme abbiamo parlato di questo libro che sa sorprendere e affascinare davvero.

Nel libro ogni racconto ci rivela aneddoti di calciatori importanti che hanno davvero fatto la storia delle squadre italiane, a partire dagli anni ’90. Pierluigi Pizzaballa, Javier Zanetti, Paolo Cannavaro, Diego Armando Maradona, David Pizarro sono solo alcuni di essi. Aneddoti minuziosi, generosamente regalati attraverso la tua opera a chi non conosce nulla di questi campioni. Quasi un libro di calcio che non parla di calcio: perché a parlare sono i calciatori stessi che ci portano nelle loro vite, per farci scoprire com’è, questa dimensione “speciale”, a piedi quasi nudi.  Come sei venuto a conoscenza di tutti questi piccoli segreti?

P.C. Fondamentalmente è stato mio padre a raccontarmeli. C’è un rituale, dietro ogni aneddoto: io, mio padre Antonio e il caffè fumante di prima mattina. Il caffè è stato il vero complice  di tanti momenti solo nostri, lui narrava e io ascoltavo rapito. Mio padre mi raccontava di quelli che erano i suoi idoli di calcio da ragazzo. Pur di ascoltare i suoi racconti, sono diventato caffeinomane! È stato lui la mia principale fonte di ispirazione. Per alcuni protagonisti, però, ho dovuto documentarmi diversamente, e lì c’è da ringraziare la mia grande curiosità e chi ha voluto assecondarla.

Il tuo libro ha una struttura particolare interna: c’è un racconto che fa da cornice, diviso in tre parti differenti e che fondamentalmente apre e chiude l’opera. Nel mezzo, ogni giocatore è la voce narrante di sé. Qualcuno parla dei suoi successi, qualcuno dei propri fallimenti, qualcuno di cosa ha significato raggiungere il traguardo di giocare in una squadra di serie A che poi è diventata nuovo punto di partenza. Come nasce l’idea di strutturare in questo modo il libro?

P.C. L’idea di partenza è stata quella di creare una sorta di album figurine letterario. Le immagini adesive sono state sostituite con dei ritratti letterari di momenti particolari, anche insoliti e fuori dal campo. Qualcuno che va dal barbiere, qualcuno che riceve una strana intervista. Vite di persone speciali che s’incrociano con le altrui quotidianità.

Vite di persone speciali che s’incrociano con le altrui quotidianità. Maradona si confessa: “Ti volterò le spalle anche stavolta. A occhi bassi, per vederti nel chiaroscuro di un tramonto. Lasciando che il vento porti via con sé queste parole, insieme a una nuvola di polvere. Ma ti prego, volgi lo sguardo altrove di fronte a queste mie parole e trattieni le lacrime, così che possa andare via senza fare troppo rumore. Lasciando indelebile il mio nome nella tua anima. Magari ci si rincontra, mia adorata Napoli”.  Qual è stato il fattore determinante che ti ha portato alla scelta dei calciatori di cui raccontare e dell’allenatore?

P.C. Ogni personaggio che si racconta nel mio libro è un calciatore comparso almeno una volta sull’album della Panini. Zeman è stato un allenatore di inizio anni ’90. L’ho sempre ammirato per essere stato un vero rivoluzionario: è stato lui a “importare” in Italia questo modulo, il quattro-tre-tre, che dispone in campo quattro difensori, tre centrocampisti e tre attaccanti. Pizzaballa apre la carrellata di voci perché è l’unico di cui la Panini non ha mai pubblicato la figurina per la raccolta. Non era in campo quando è arrivato il fotografo per ritrarre i calciatori della sua squadra. Successivamente, per i collezionisti, la fotografia è stata recuperata e la figurina stampata, ma ovviamente a tiratura limitata. Praticamente era introvabile, i bambini erano disposti a scambiare di tutto pur di averla e completare gli album, che invece conservano quel vuoto. Tutt’oggi Pizzaballa è rara più di Joe di Maggio.

“Quattro-tre-tre” però non è il tuo primo lavoro letterario. Raccontaci di te.

P.C. Ho esordito con racconti pubblicati su diverse antologie di Scout, la collana della casa editrice Homo Scrivens sempre attenta alle nuove firme. Ho pubblicato anche altri romanzi e racconti. (Vedi nota biografica) Poi ci sono gli spettacoli teatrali.

Parlare di calcio ti ha sempre entusiasmato.

P.C. Sì, decisamente. Prima del libro c’è stato uno spettacolo, portato in scena in diversi teatri: “Perché in fondo Pizzaballa vale più di Maradona”, sempre ispirato alla mitica figurina introvabile.

Il teatro, veniamo a questo capitolo. Perché tu, oltre a scrivere, reciti. Una domanda sembra quasi obbligata: ti senti più uno scrittore o ti definisci un attore?

P.C. Io dico che lunedì, mercoledì e venerdì sono un attore che scrive; martedì, giovedì e sabato, invece, uno scrittore che recita.

Quasi molteplici personalità che convivono in un unico essere, direi, considerato che ogni scrittore e ogni attore sono, in una certa misura, anche i personaggi a cui danno voce. Da grande cosa vuoi fare?

P.C. Voglio continuare a fare tutto questo, magari con una busta paga fissa a fine mese.

Chi è Dante, il protagonista di cui racconti in Quattro tre tre? In qualche modo ti rappresenta, ha connotazioni biografiche o autobiografiche?

P.C. Dante mi rappresenta molto come ragazzo, perché dal punti di vista caratteriale è un sognatore, fa della necessità di gavetta un punto di forza. Non recrimina, non si lamenta. Si rimbocca sempre le maniche, non si dà mai per vinto. È una sorta di me proiettato in chiave calcistica con tutti i sacrifici che faccio.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

P.C. Tra la fine di febbraio e l’inizio della primavera arriverà in libreria il nuovo romanzo. “Centomila copie vendute” è il titolo.

 

E noi speriamo che ne venda almeno centocinquantamila.

 

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Parole per l’anno che verrà – parte seconda

 

 

Ho fatto un po’ di valutazioni: le parole che spesso dimentichiamo di mettere in pratica in modo autentico davvero, nella nostra quotidianità (sì, dovremmo usarle e realizzarle ogni singolo giorno), sono davvero tante.

Dopo il verbo Amare, riferito a una relazione di coppia, quindi, ecco le altre che vi auguro: altri verbi, per sottolineare che è importante lavorare sodo se si vogliono relazioni autentiche ed essere persone di valore, e anche sostantivi. Insieme all’amore inteso come forza motivante e collante autentico da mettere in pratica con i vostri affetti più veri e anche con gli sconosciuti. Perché vi dico “anche con gli sconosciuti”? Lo scoprirete leggendo.

 

Ribadisco: vi auguro che questi verbi soprattutto siano declinati ogni giorno nelle vostre esistenze, tramite le vostre azioni concrete. Ricordate: le parole, da sole, non fanno un bel niente, non dimostrano nulla, se non che ne avete conoscenza e padronanza linguistica. Per cui, come scrittrice e come educatrice, vi dico: le parole sono importanti, possono aprire mondi e possibilità, possono generare sentimenti, rinsaldare rapporti o farli interrompere, creare nuove realtà. Siate ben attenti a quello che dite, a quello che promettete, e siate coerenti; occorre essere capaci di tener fede alle parole pronunciate, che significhino promesse o impegni, ed essere concreti. A parlare sono bravi tutti: la volete fare davvero questa differenza o no? Datevi una mossa, crescete, riflettete, misurate, agite! E siate cauti. Perché, come diceva la mia professoressa di lettere e latino a liceo, “Parole poco pensate portano pena”. Non solo per gli altri, ma anche per voi: perché gli altri non sono scemi e vi posson dare il benservito sempre, senza possibilità di replica. E quindi: non vi giocate male le possibilità che l’altro vi offre, non tradite la sua fiducia, non bruciatevi.

 

PAROLE PER L’ANNO CHE VERRÀ

VERBI

sognare            viaggiare 

imparare           realizzare

rischiare          cercare

perseverare         valorizzare

incoraggiare

 

SOGNARE. Il sogno: quello a occhi aperti che non fa male, restando sempre coi piedi per terra ma al tempo stesso dispiegando le ali per REALIZZARE nuovi progetti. Professionali, personali, di squadra; a lavoro, in famiglia, con gli amici; con i vostri compagni di vita, mariti, mogli, figli.

IMPARARE. Vi auguro di imparare sempre, perché solo così conoscerete meglio voi stessi e scoprirete di amare ciò che prima ignoravate, solo così scoprirete i vostri limiti e vi metterete alla prova. Sfidatevi, non date nulla per scontato, datevi la possibilità di giudicare con cognizione di causa, non di essere mossi dal pregiudizio. Imparate nuove lingue, nuove attività, nuovi mestieri, nuovi voi stessi: sì, imparate a cambiare pelle, a superarvi, a non ripetervi sempre uguali.

Imparare, poi, è un verbo che a me piace tantissimo perché apre la porta a molti altri: a MERITARE, per esempio, a CURARE, CURARSI, AIUTARE, GUADAGNARE, RISPARMIARE.

REALIZZARE. Realizzate i vostri progetti, i vostri sogni, i vostri desideri. Dalla passeggiata in riva la mare anche se è inverno, alla dieta e alla palestra rimandata da tempo. Dalla mostra dei vostri dipinti o delle vostre foto, all’organizzazione del libro nel cassetto. Dal riordino dei vostri spazi, al cambio di look che vi piace ma non siete sicuri possa davvero essere quello giusto. Non rimandate: la Vita è adesso!

RISCHIARE. Se sono cose belle, se non nuocciono a nessuno, se è esattamente quello che più temete, rischiate rischiate rischiate! Mandate il messaggio che volete inviare ma esitate, azzardate l’abbraccio o la carezza che frenate dentro i pugni, scrivetele le lettere, fatele le telefonate, consegnateli i regali che avete comprato e mai dato ai destinatari delle vostre attenzioni! Mettete da parte l’imbarazzo, l’insicurezza, le perplessità. Cosa avete da perdere? Se il risultato non sarà quello che speravate, sarà comunque valsa la pena: perché non avrete rimpianti. No, non avete nulla da perdere, solo da guadagnare, nel bene e nel male.

CERCARE. Cercate sempre, senza sosta, non impigritevi, non annoiatevi, non scoraggiatevi, non demordete. Non accontentatevi. Cercate sempre la soluzione migliore, la condizione migliore, la persona giusta per voi. Cercate sempre di migliorare voi stessi, l’ambiente in cui vivete, la relazione col vostro partner. Cercate sempre il lato positivo delle cose. Cercate di vivere appieno e fino in fondo le vostre emozioni, i vostri stati d’animo: non temete mai la tristezza, la malinconia, la delusione, la rabbia, il rammarico. Passeranno, col tempo. Ci vorrà pazienza, ma se ne andranno, se li vivrete davvero. Ogni nostro stato d’animo spiacevole non va soffocato o represso perché negati dalla nostra società. Non possiamo diventare davvero più forti se neghiamo le tempeste. Fanno parte della Vita. E poi cercate il punto d’incontro, il confronto, la messa in discussione, l’antitesi, la risposta, il perdono, la riconciliazione, la melodia giusta, il libro giusto al momento giusto. Cercate sempre di tentare ancora, di non tirarvi indietro, di mettere da parte l’orgoglio.

PERSEVERARE. Oltre a cercare, sì, perseverate. Siate decisi, agite con costanza, dimostrate fermezza e coerenza. Però non perseverate negli errori: imparate a riconoscerli, e miglioratevi subito rispetto a essi se dipendono da voi, dal vostro carattere, dalla vostra pigrizia, dalla vostra incapacità. Oppure migliorate il tiro se dipendono da fattori esterni. Non perseverate però in relazioni sbagliate o nelle situazioni ambigue. Imparate a riconoscerle e operate criticità. Imparate a salvarvi, laddove potete. Che sia da una storta per aver corso su terreni non stabili o da pericoli gravi e seri.

VALORIZZARE. Date valore. Valorizzate i vostri fallimenti, i vostri errori: perché solo così eviterete di fallire o sbagliare ancora. Valorizzate quel che avete: leggeteli, i libri che comprate; indossateli, i vestiti che lasciate spesso nell’armadio. Imparate a usare quel che avete. E poi, soprattutto, valorizzate le persone che vi circondano. Ripetete sempre a chi amate quanto sia importante per voi, e nel farlo non usiate solo le parole: regalate fiori, scrivete parole su cartoline, scarabocchiate disegni anche se non siete bravi, organizzate gite, e se non sono gite, anche semplici passeggiate; ricreate dei momenti solo per voi: non è importante la cena al ristorante, ma lo spazio e il tempo curati esclusivamente per condividerli con chi amate. Non aspettiate che l’altro vi manchi per chiedere “Passiamo del tempo insieme?”; no: curate e condividete con chi amate il tempo che potete, quando potete. E poi: valorizzate voi stessi. Questo significherà anche tagliare quelle relazioni in cui siete dati per scontati, messi all’angolo, o peggio: in cui siete offesi, in cui soffrite. Non sempre si può, lo so. Nel lavoro, per esempio, non è facile. Ma almeno in pseudo-amori o pseudo-amicizie, fatelo! Inutile che vi dica che dovete valorizzare i vostri talenti, le vostre capacità e competenze, le vostre caratteristiche migliori (lavorando sui vostri difetti) per aumentare la vostra autostima e divenire così capaci di tagliare i ponti con chi non vuole davvero il vostro bene, con chi dice di amarvi ma poi è centrato solo su di sé. Io, per esempio, ho iniziato a tirar fuori la mia passione per la scrittura e a pubblicare articoli, racconti e romanzi quando ho detto basta a una relazione troppo sbilanciata. Siamo nati per essere felici, non per costringerci all’infelicità.

E poi…

INCORAGGIARE.

Incoraggiate voi stessi, gli altri, i bambini, i ragazzi che crescono, i vostri genitori, i vostri figli, i vostri insegnanti, i vostri alunni, i vostri amici, i vostri colleghi e anche il capo che vi sta sulle scatole. Lo sconosciuto che siede di fronte a voi sul vagone del treno, la ragazza che incrociate per strada mentre piange. Chi ha perso tutto, chi è ambizioso, chi prega per gli altri, chi s’impegna, chi vuol gettare la spugna. Incoraggiare significa anche ascoltare: ecco, fermatevi un attimo e ascoltate. Vedrete che in qualche modo, nella frenesia di ogni giorno, vi riconcilierete col mondo e con una parte di voi stessi che probabilmente state trascurando.

Per me scrivere significa raggiungere gente sconosciuta e incoraggiarla, farle capire in qualche modo che non deve sentirsi sola, perché non lo è.

La cosa più bella che mi sia capitata all’inizio della mia vita a Milano, più bella e più inaspettata, è questa, ve la racconto.

Poco più di un anno fa, a Vigevano salivo sul treno per raggiungere Milano, in un sabato mattina in cui avrei dovuto incontrare i miei amici pugliesi. Parlavo al telefono, era un momento difficile. A un certo punto, mentre ero già sul vagone, individuato un posto libero, chiedo: “Come sta?”. Io chiedevo come stesse una cagnolina di nome Maya al suo proprietario, dall’altra parte del telefono. Una voce esterna, però, mi ha risposto con tono meravigliato: “Sto bene, grazie”. Era il passeggero seduto sulla poltrona di fronte a quella su cui mi stavo accomodando. Mi sono scusata, ho spiegato che non era rivolta a lui la domanda perché parlavo al telefono con gli auricolari ma che ero comunque contenta di sapere che stesse bene. Quando ho chiuso la telefonata, nonostante la mia faccia triste e qualche lacrima che solcava le guance, lui si è fatto coraggio e mi ha chiesto: “E lei, come sta?”. Quell’uomo, per me sconosciuto sino a quella mattina, mi ha incoraggiata tanto in un momento difficile davvero. Arrivati a Milano, mi ha proposto di scambiarci i numeri, “Così”, ha detto “quando ti vien voglia di scrivere a lui, manderai un saluto a me e io ti parlerò della Spagna, dei miei viaggi, e tu affronterai il distacco un po’ meglio, riuscirai a voltare pagina. Vedrai”. Quell’uomo, che ho scoperto poi essere un pilota dell’Alitalia, è diventato mio amico. Quando pubblico qualcosa qui su questo blog, mi legge subito senza che nemmeno lo avvisi e mi dice quel che pensa, mi scrive su whatsapp. Anche per il mio lavoro di scrittura mi incoraggia. Ieri sera mi ha scritto parole bellissime in merito al mio precedente articolo, quello sul verbo Amare, e mi ha confidato che leggermi lo aiuta molto, in una certa misura lo incoraggia a guardare il suo passato e a rileggerlo in modo più consapevole.

(Sul treno si fanno incontri bellissimi, ve lo garantisco personalmente. Alle volte possono nascere anche poesie, o racconti che qualcuno pubblicherà da qualche parte, forse su altro sito internet, sotto occhi di milioni di persone.)

Se non fosse per questo pilota Alitalia sconosciuto poi divenuto mio caro amico, Milano sarebbe stata molto più dura e difficile da affrontare.

Quindi: incoraggiate, non tiratevi indietro mai. È il gesto più umano che possiate compiere e che, al tempo stesso, vi farà sentire davvero migliori. Perché in quel momento lo sarete davvero.

Non ci sono solo verbi, ma anche sostantivi che vi dedico e vi auguro per questo nuovo anno ormai alle porte. Non commenterò in alcun modo nessuno di essi: perché voglio che ognuno di voi vi rifletta spontaneamente, senza interferire né condizionarvi.

PAROLE PER L’ANNO CHE VERRÀ

SOSTANTIVI

coscienza    

incoscienza (q.b., il necessario per volare)

tenacia    coraggio   

delicatezza   forza

calma   serenità

felicità

pazienza  determinazione

serenità   sincerità

lealtà

critica   autocritica

realizzazione

reciprocità

 

 

La Vita è misteriosa e affascinante. A volte gioca tiri mancini che nemmeno immaginiamo, altre volte ci regala gioie immense.

Una persona che amavo tanto, occhi celesti come il cielo, sorriso radioso, mina vagante un po’ come tutte le altre donne della mia famiglia, era solita ripetere – e dire a me soprattutto – le parole di un grande Maestro:

Gioisci per quel che c’è da gioire,

soffri per quel che c’è da soffrire.

 

Di fronte a tutto quello che mi accade, io me le ripeto sempre, lascio che risuonino in me con la sua voce, e la sento meno lontana.

Oggi le regalo anche a voi, perché possano essere il mio incoraggiamento in qualsiasi vostro momento.

Il mio compito finisce qui, con la speranza che possiate donare e ricevere, sempre e incondizionatamente, con purezza e reciprocità d’intenti.

Buon 2017.

Luana

Parole per l’anno che verrà

Abbiamo tutti bisogno di parole: da ascoltare, da ripeterci, da ricordare e rammentarci.

Ma le parole non bastano: servono le azioni, i gesti, le attenzioni.

E sono talmente urgenti, tutte quante insieme, che servono a priori, perché solo a priori valgono, hanno effetto, salvano.

Se il presente è un dono, non c’è da rimandare: è la Vita stessa che richiede l’urgenza. Hic et nunc: qui e ora, perché quello che rimandi potrebbe non aspettarti. Tutto cambia forma, anche se certe cose non cambiano mai. Anzi, non certe cose: le persone.

Cosa davvero ci richiede la Vita? Parole che auguro a voi, verbi soprattutto: perchè dobbiamo impegnarci, rimboccarci le maniche, darci una mossa.

 

 

PAROLE PER L’ANNO CHE VERRÀ

AMARE

(Melodia consigliata per accompagnare la lettura: Ludovico Einaudi – Melodia africana III )

 

 

Il presente ci chiede soprattutto di amare.

Amare.

Questo verbo infinito, tanto infinito da essere sconfinato, a volte smisurato, smodato, troppo astratto da divenire irraggiungibile, o troppo concreto da annientare, soffocare, sbagliare, confondersi.

Amare.

Questa parola inflazionata, a volte dimenticata in un angolo, ad aspettare. Come un’auto che sta lì, per strada sotto casa, coperta di polvere e di foglie, perché tanto se non sei tu a inserire e girare la chiave, pigiare il pedale, sei sicuro non camminerà mai senza di te. E se invece ti sbagliassi?

Amare.

Questo verbo che si fa sentimento ricco di emozioni, promesse, speranze, progetti. Qualche volta delusioni, rimpianti, rimorsi. Più facilmente baci, carezze, sospiri; ma non troppo difficilmente mani pesanti, lividi.

Accade anche che definiamo “Amare” azioni e parole che non nascono da amore: siamo carenti, linguisticamente; maciniamo massi grezzi sotto i denti illudendoci di trarne fuori pietre preziose.

(Ma l’amore è un’altra cosa, mi dico.)

Amare, in fondo, è anche aggettivo qualificativo femminile plurale: ecco, molto spesso confondiamo tra il verbo e l’aggettivo. Siamo ignoranti, spesso anche ciechi e ipocriti.

Amare (il verbo, quello autentico) fa rima con donare. Perché il dono è momento di condivisione e te ne infischi delle regole che ti sei imposto.

Fa rima con ascoltare, e mi riferisco all’ascolto dei silenzi soprattutto. E se sono parole, che servano per costruire ancora, ogni giorno cose nuove, custodendo quel che già è stato fatto. L’amore non deve richiederci il compito di Penelope, questo continuo tessere e disfare e ricominciare.

Amare riecheggia in evitare: evitare di ferire l’altro, di darlo per scontato, di commettere sempre gli stessi errori. Errori che poi hanno il nome di egoismo, egocentrismo, e accidenti quanto fanno male! Se ami, sei attento a non ferire l’altro.

Amare è complicità: cercarsi con lo sguardo tra mille volti e lì trovarsi, occhi puntati negli occhi, se non è proprio possibile aversi in un abbraccio, tra mille persone. Perché se ci siamo, non si è semplicemente delle persone tra tante altre persone. Un gesto, una carezza, un bacio lieve nella confusione. Gli amanti rubano tempo al tempo, nulla è loro di ostacolo, il NOI è saldo tra la folla che disgrega. Altrimenti forse no, non è amore. Allora è altro. E non è vero che la complicità con gli anni può esser data per scontata: o c’è e si vede, o non c’è, e allora uno cerca lo sguardo che mai s’incrocerà col suo.

Amare è entusiasmo: quello che ti tira fuori dal letto perché c’è da vivere insieme, da correre incontro, da guardarsi negli occhi, e nulla può frenarti, c’è l’urgenza, non puoi farci niente, perché altrimenti manca l’ossigeno, la nostalgia tende agguati, la mancanza t’invade. C’è da correre, velocemente, e velocemente non è abbastanza.

Amare è cogliere l’attimo, perché la bellezza è una poesia leggera che in ogni istante può sfumare. E’ per questo che per gli innamorati tutto passa in secondo piano.

Amare è attendere, anche. Ma di certo non è deludere le attese altrui, perché altrimenti chiediti: chi amo davvero? L’immagine solitaria nello specchio, quella catturata per strada da un obiettivo, o le due immagini che camminano affianco riflesse nelle vetrine per le strade?

Amare è buttar via le proprie scelte radicali, se ci sono momenti da celebrare. Alle volte basta una banalità piccola per rendere grandi gli attimi e i ricordi.

Un po’ come dire: non importa la sala, ma il film che vi si proietta; non importa la destra o la sinistra, ma l’unità d’intenti, i valori, i principi.

Non importano gli altri, ma conta prima di tutto l’altro. Il passato lo lasci lì dov’è senza nemmeno pensarci. Cosa conta: chi eri o chi sei? Cosa conti: quel che hai perso o quel che hai trovato?

L’amore altrove, dice qualcuno. Altrove dove?, dico io, se non qui, se non ora, se non adesso, se non noi, se non per il tempo che riusciamo a regalarci?

In amor vince chi fugge? In amore vince chi resta? No, in amore vince chi va incontro all’altro, reciprocamente. E se non c’è reciprocità, non ne vale la pena, fidatevi.

Si vuol bene, si fa del bene: gesti piccoli, gesti grandi, gesti giusti. Gesti sempre, perchè Amore non è fatto per scusarsi delle proprie mancanze o superficialità: amore è fatto per evitarle.

Alle volte però l’amore non è affatto tutto questo.

Alle volte, poi, si ama l’altro con una misura diversa da quella che si riceve. E l’amore, come l’entusiasmo, è una torta di cento fette, dove ogni delusione, ogni attesa vana, ogni momento rimandato, ogni momento lasciato lì ad aspettare ne mangiano alcune. E se l’altro non ricolma quel piatto, se ancora rimanda?

Arriva la tristezza, quella sì che pesa.

Come un sasso.

E noi – spesso non lo sappiamo –  siamo fortunati a inciampare in quel sasso.

Perchè…

 

 
Si cade, s’inciampa
tra i sogni e le speranze
tra quello che cercavi
quello che vuoi
quello che ti è negato.
 

É allora che ti svegli:

cadendo
le ginocchia sbucciate
sanguinano:
in un lampo ricordi
d’esser vivo
e sai:
felicità
ha un altro sapore
un altro ritmo
un altro cuore.
Piangere adesso:
le ginocchia sbucciate
le lacrime salate
le guariranno.
 (A tutte le mie amiche che in questo 2016 hanno scoperto il lato difficile davvero dell’amore. Luana)

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Una vita all’improvvisa, risposte nel vento

Bob Dylan ha ricevuto il Premio Nobel per la letteratura.
A me torna in mente una sera di marzo, aprile forse, di pochissimi anni fa lontani quanto decenni.
La pioggia leggera fuori, due sconosciuti, un impianto stereo che s’inceppava, facendo ripartire sempre la stessa canzone.
“The answer, my friend, is blowing in the wind”, sarà per questo che ancora oggi molte risposte mancano e la pioggia porta sempre a quei due rimasti lì, impigliati da qualche parte. Distanti nella vita reale, c’è chi non smette di pensar loro, forse spera che le domande siano soddisfatte un giorno, e allora si chiede come fare per dimenticare.
Forse “una vita all’improvvisa” è il miglior consiglio da adottare e praticare, in simili situazioni, come dicevano Franca Rame e Dario Fo. Che pensava non fosse per lui, quella donna da cui non riusciva a staccare gli occhi, da cui cercava di prendere le distanze, e invece poi ha avuto vicino persino nei sogni, oltre l’ultimo bacio di una vita insieme, sino all’ultima parola.

Marcela Serrano, Dieci donne

Alla fine, dice fra sé allontanandosi dalla finestra, alla fine tutte noi, in un modo o nell’altro, abbiamo la stessa storia da raccontare.

Si chiude con queste parole il romanzo Dieci donne, di Marcela Serrano.

Ambientato a Santiago del Cile, paese di nascita dell’autrice, narra di nove donne invitate dalla loro psicoterapeuta per conoscersi e raccontarsi. Anello di congiunzione per queste sconosciute è infatti Natasha, la loro psicoterapeuta.

Ognuna di loro ripercorrerà il proprio vissuto, “donandolo” alle altre e rivelando il motivo della propria psicanalisi. Anche Natasha farà loro dono di sé e della propria storia di vita, ma attraverso la voce di un’altra donna.

Non so quale fosse la sua intenzione nel riunirvi qui, oggi. Lei non mi dice mai cosa farà, pertanto non posso anticiparvi nulla. Voleva dirvi addio? Forse. Voleva che vi aiutaste l’un l’altra nel caso lei fosse mancata? È  probabile.

Quando  la decima voce, ovvero la sua assistente, pronuncia queste parole, le nove pazienti si sono già “sintonizzate”, messe in contatto rivelandosi, affrontando temi epici. Ognuna con la propria visione, o la propria interpretazione. Ognuna testimone del proprio mondo, universi che s’incontrano.

Marcela Serrano ci conduce così nei luoghi dell’essere donna, con tutte le sfaccettature dell’universo femminile, per farci scoprire che in fondo sono sempre gli stessi punti quelli su cui ci interroghiamo, per quanto le nostre esistenze, i nostri ruoli sociali, la nostra ideologia sociale, o i nostri ideali, le ideologie politiche, la formazione culturale e professionale possano essere diametralmente opposti. A dispetto del tempo e anche dell’emancipazione femminile.

Proprio per questo, il suo è un lungo racconto capace di metterci in contatto con quelle parti di noi accantonate, o dimenticate, o trascurate. L’autrice ci pone di fronte ai grandi capitoli su cui ci interroghiamo, anche inconsapevolmente: il senso dell’amare e dell’amore, il significato di un uomo nella nostra quotidianità e della sua presenza vera, il valore etico del lavoro e la sua vera valenza, il sesso, la maternità come sentire prima che come agire. Non ultimo, il senso dei legami. Tramite il coro di voci, la riflessione nel lettore (donna o uomo) prende vita, portandolo a interrogarsi e confrontarsi, sia col proprio vissuto sia con la pluralità della scena letteraria.

Pare sottolineare implicitamente, a mio avviso, la Serrano, che ogni donna indipendente è una donna davvero realizzata, a prescindere dalla realizzazione nella vita di coppia o nel lavoro. Componente di questa indipendenza è la solitudine, intesa come punto di forza e trampolino di lancio, mai come condizione di negazione di sé rispetto al mondo. Anzi: la solitudine come strumento per una piena e autentica appropriazione di sé e del mondo.

Il valore degli esseri umani sta nella loro capacità di separarsi dagli altri, di essere indipendenti, di appartenere a se stessi e non al branco.

Allo stesso tempo, però, pare sottolineare che indipendenti non significhi distintee-disgiunte dagli altri. Anzi, tramite le voci delle protagoniste, la Serrano ci ricorda che non potremmo mai vivere senza legami con gli altri, col nostro passato, con quelle che siamo state e con chi ci ha accompagnate nel processo di crescita e cambiamento. Ad accompagnare queste donne nel loro percorso fino all’incontro con Natasha ci sono stati uomini: i loro padri, i loro mariti, i loro amanti, i loro figli, o degli sconosciuti. Non sempre figure positive, anzi. Le protagoniste della Serrano raccontano delle violenze, dei soprusi, degli abbandoni, delle mancanze consapevolmente esercitate. Senza sentirsi né risultare vittime, ma eroine capaci di testimoniare la forza della rivincita.

Però, nonostante tutto, non posso dire di non essere stata felice. Sono stata pazza, coraggiosa e sfrenata e me la sono goduta alla grande. Se il mio destino era soffrire, allora quel cazzo di destino si è sbagliato ed è rimasto a bocca asciutta.

Sono donne che hanno spezzato le catene, anche se questo significa soffrire. Ma ogni sofferenza è un nuovo partorire, un nuovo rinascere, soprattutto quando quella sofferenza è vissuta attivamente. La psicoterapeuta lo sottolinea:

Da quel mollare gli ormeggi a volte nascono opere magnifiche.

Mollare gli ormeggi: prendere il largo e nuotare da sé in acque nuove. Sappiamo bene che quando si nuota verso il mare aperto, a tratti ci si volta sempre indietro, per toccare con lo sguardo la riva, il punto di partenza, dalla parte opposta dell’orizzonte inseguito. Proprio come quando, nella frenesia quotidiana, sospendiamo tutto per un attimo e guardiamo indietro nei nostri anni.

Il passato è un rifugio sicuro. Il passato è una costante tentazione. E tuttavia il futuro è l’unico posto dove possiamo andare.

Cosa conta, nell’esistenza di tutte queste donne? Cosa testimonia il racconto della loro vita, passando per traumi o malattie emotive che hanno determinato l’esigenza di un percorso psicoterapeutico?

I movimenti concreti della vita quotidiana – risponde Andrea, la grande donna d’affari e di successo con una meravigliosa famiglia e un marito che la ama, ma dalla rabbia indecifrabile che gli altri le dicono di avere sul volto, il motivo che l’ha condotta da Natasha. I movimenti concreti: gli unici che impediscono di fermarsi, arrendersi.

Che esercizio stiamo facendo Natasha? (…) È  questo che importa: i piccoli movimenti concreti della vita quotidiana. L’importante è che, quando lei – la vita – verrà a cercarmi, in qualunque posto io sia, non mi trovi sconfitta.

Nei movimenti concreti delle donne c’è il lavoro. Cosa è davvero il lavoro, per noi?

Come ci difendiamo con il lavoro! E come saremmo esposti alla nudità senza di lui!

Lavorare. È  la mia costante scusa per vivere. Ma adesso ero nel deserto per pensare, o per ricordare.

Il lavoro, la carriera, l’affermazione professionale: questo conta per alcune delle protagoniste. Tutte fanno quello che è nelle proprie corde, nelle proprie possibilità. Quelle già in pensione ascoltano le più giovani. Tutte sono sbocciate in modo diverso, ognuna in base alle proprie potenzialità, ai propri talenti. E il talento cos’è? A rispondere sempre Andrea, la grande donna manager di sé stessa:

Il talento è un titolo di responsabilità.

Nessuno può negarlo: riconoscere il proprio talento comporta doveri, e rispondere ai propri doveri richiama il senso di responsabilità.

Indubbiamente ci vuol talento anche nel ri-conoscersi per quello che si è, anche nell’ammettere i propri limiti. Insomma, ci vuole talento nell’accettarsi e amarsi “a prescindere”.

Ma cos’è che ci permette di raggiungere questo amore per sé che di certo non è un paradiso, il più delle volte? Un viaggio: un viaggio dentro di sé, con se stesse, per se stesse.

Qualcuna si cerca in mille luoghi diversi, e alla fine trova sempre la propria inquietudine.

Viaggio con curiosità. Con la speranza di trovare serenità da qualche parte.

Arrivo in un posto per andarmene, non per restarci.

Altre, invece, hanno compreso il segreto: il viaggio vero è guardarsi dentro, alleggerire il carico, eliminare il superfluo. Avere un cuore più umano, più materno forse, anche con se stesse.

Delle nove pazienti-protagoniste, alcune sono separate, altre sposate, altre in cerca del proprio uomo, altre si chiedono “dove siano, questi uomini”. Una di loro ha perso per sempre il suo grande amore: il suo marito e padre dei suoi figli, e lo aspetta. Da anni. Racconta così la mancanza dell’unico uomo che desidera:

Avevo voglia di abbracciarlo. E avevo voglia di tutte quelle cose che non si dicono. (…) Sapete cos’è che ammazza? Il silenzio. È questo che ti ammazza. (…) Dove sei, amore mio? Dove sei che non mi senti? (…) Certi giorni mi sembra di sentire il Carlos. Tu che cosa hai fatto, Luisa? mi chiede. Ho aspettato, rispondo. Ti ho aspettato tutti i giorni. Non pensavo che una cosa simile potesse succedere, caro. (…) Non muore nessuno per non avere un uomo. Però sono stanca. Sono stanca. Molto stanca.

Cos’è un marito? – ci si chiede allora. Due differenti accezioni emergono: agli antipodi, ovviamente. Eppure, pur non essendo sposata, sono sicura di non sbagliare quando credo che in ogni donna queste due accezioni coesistano contemporaneamente e pacificamente.

Un marito è un luogo. Un luogo di solidità. E di purezza anche, se una s’impegna.

…per altre non è proprio così, piuttosto è un luogo scomodo. Del resto, come dar loro torto? Certi mariti non sono uomini, ma maschietti, bambini cresciuti, per cui le donne non sono che delle mamme, se non delle badanti:

E quando rimasi sola cominciai a provare un enorme sollievo. Mai più una partita di calcio alla tele. mai più un uomo sdraiato sul letto con il telecomando in mano e lo sguardo perso. Mai più il ronzio di sottofondo della televisione perennemente accesa. Mai più i tappi nelle orecchie per potersi addormentare. Mai più cercarsi un posto dove andare a leggere un libro perché in camera tua non è  possibile. Mai più fare a gara con la sua squadra del cuore per aggiudicarsi un attimo di attenzione.

Però la risposta che più condivido è quella di Andrea (sempre lei, la più realizzata): perché la nostra indipendenza, senza una zona franca di intimità e condivisione essenziale, è incompleta. Non si cresce senza confronto; ed è bello crescere e cambiare confrontandosi con un punto fermo diverso da noi: un uomo presente davvero nelle nostre esistenze, anche nelle nostre indipendenze: un marito – io credo.

Andrea marito 1

Andrea marito 2

 

Chi invece un marito non ce l’ha e nemmeno lo cerca, lo dichiara così:

Se avere un uomo è un fatto di prestigio, un di più che ti porti dietro, un cappotto di buon taglio  che cade elegantemente e non importa se tiene caldo, io preferisco avere freddo.

… ma avere un uomo nella propria vita, decidere di averlo e sceglierlo – secondo me – anche questo è un viaggio, un lavoro, un talento. Un rischio, anche. E si sa che…

Senza rischiare non vai da nessuna parte.

Una che un uomo proprio non lo cerca è Lupe, la più giovane del gruppo, adolescente e omosessuale. Ripercorrendo tutte le tappe che l’hanno condotta alla conoscenza della propria identità sessuale e al coming-out, con quegli adulti impiccioni e incapaci di confidare nelle giovani generazioni, mi ha fatto sorridere quando ha riportato il dialogo con suo padre, nel giorno in cui ha dovuto dichiarare ai genitori la propria omosessualità:

Lupe e suo padre

Qualcuna di loro si lamenta delle altre femmine insipide, qualcun’altra precisa la sottile differenza tra sentimenti e sentimentalismi; un’altra, poi, riporta le parole di una sua amica che al sesso ha definitivamente rinunciato.

Mi fanno ridere certe fighette che si lamentano sempre, si lamentano di ogni cosa, di tutto e per tutto, quelle teste di cavolo.

La sorella di Jennifer, che si chiama Doris ed è di poco più anziana di me. Mi ha detto: a me là sotto si è chiuso tutto, le grandi e le piccole labbra mi sono salite su per la schiena e adesso ho un bel paio d’ali!

Non mancano i temi della morte, della difficoltà nell’amare un figlio frutto di una violenza, della grande fatica emotiva e fisica di essere responsabili del destino di questi figli. Non manca la donna cresciuta in una famiglia molto benestante ed ereditiera di un patrimonio che le consente di scrivere e vivere come vuole. Ed è, questa protagonista, una tosta che la pensa come me sul femminismo:

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Si ride, a tratti, con questo libro, e si riflette, passando per quello che più fa male. “Eh, mon chérie, c’est la vie! Eh, miei cari, é la vita!”, come dice lo scrittore protagonista del mio secondo romanzo.

 Comunque se Dio ha dotato la gente di un po’ d’elasticità, se la sono accaparrata le donne.Per gli uomini non è rimasta. Non cambiano. Solo con il Prozac, se riesci a farglielo prendere.

Lo guardai allontanarsi e pensai com’è spaventoso vedere un uomo lucido e intelligente che diventa un idiota nel giro di un secondo.

 

Il lungo pomeriggio delle vicende del romanzo finisce. Dietro i vetri di una finestra c’è Natasha. Le ha salutate una per una, a un tratto è comparsa per regalare a ognuna delle nuove parole, bisbigliate in segreto nei loro orecchi, almeno così dice furtivamente la Serrano. Le guarda attraversare il viale dell’ospedale che ospita il suo studio per risalire sul pulmino che le riporterà a casa.

Se le immagina mentre camminano lontano da lei con un passo più lieve, sotto le stelle: non quelle che conoscono ma quelle che stanno nascendo, originate dalla morte delle altre.

Sono guarite? – vi chiederete e vi chiedo, sorridendo e avvertendo già nostalgia per tutte loro.

Come ho scoperto questo meraviglioso romanzo? Ero in Salento, arrivata senza libri per mia volontà. Perché volevo staccare la spina: niente libri e niente taccuini su cui scrivere. Mi sono annoiata dopo tre giorni e così son corsa in libreria. “Dieci donne” era l’unica trama che mi affascinasse tra i titoli disponibili, benché la grafica di copertina me ne allontanasse (sono esteta assai, pure con le copertine dei libri). L’ho letto tra diversi paesi salentini e durante i miei giri nelle Marche, interrompendone a un tratto la lettura per dedicarmi alle opere di due autori che ho presentato all’evento letterario annuale “Libri nel Borgo Antico” di Bisceglie, che mi ha sempre ospitato come autrice ma che quest’anno mi ha voluta come conduttrice del dialogo su altre opere.

In quella pausa forzata, le protagoniste della Serrano mi mancavano.

Grazie alle donne create (o prese in prestito dalla vita reale?) dall’autrice, ho realizzato così una grande verità. In realtà già viveva in me, anche se sedimentata sotto strati e strati di pensieri e considerazioni.  Le donne consapevoli di sé e della propria storia sono donne salve: questo mi è divenuto chiaro leggendo “Dieci donne”, lavoro scritto bene e talmente intenso da strapparmi più di una lacrima e un pianto vero e proprio. Quando un uomo ha detto a una donna “…facciamo un atto di tenerezza”. A dirlo era un uomo che invitava la sua donna a portare avanti una gravidanza non programmata né desiderata, consapevole del fatto che ad accogliere quella nuova vita fosse il corpo di lei. E quella lei era lei, Natasha.

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Ad ogni donna, così come ad ogni uomo che mi sta leggendo, vorrei sottolineare queste parole, pronunciate da una protagonista madre di due ragazze, anche se possono risultare banali:

L’unica condizione perché una vita come la mia possa funzionare è star bene con se stesse. Confidare in sé. Senza risorse interiori, non c’è niente da fare.(…) La solitudine non è mai sostanziale. È relativa, perché le presenze che mi accompagnano sono di una solidità impressionante. Lo sono davvero. Quindi concludo che questo è l’amore, né più né meno. La forza di queste presenze. Quegli adorabili fantasmi con i quali prendi il tè o bevi un bicchiere verso sera.

Le sottolineo perché io, fondamentalmente, non credo che siamo isole incapaci di creare ponti durevoli verso altre isole. Certo, sono poche le isole con cui possiamo formare meravigliosi arcipelaghi capaci di resistere alle intemperie del tempo, però non per questo dobbiamo rassegnarci o desistere. E di fronte alla fragilità umana, alle nostre debolezze e alle differenze che spesso ci allontanano dall’altro, dobbiamo ricordarci le parole di una delle tante voci che si narrano:

Abbiamo (tutti) la stessa vocazione per la felicità.

Chi è Natasha e perché non compare a raccontarsi tra le sue pazienti in prima persona? Dovete leggere il libro per scoprirlo, io non vi rivelerò nulla, come mia abitudine per le parti più belle dei libri che decido di condividere con voi. Posso solo dirvi che la sua storia è bellissima, s’intreccia con altre vite, affonda le radici nell’esistenza di altre persone, ed è fatta di amore – “perché l’amore salva”, dice qualcuno. Solo una frase vi riporto, per farla entrare nel vostro cuore e indurvi a desiderare di “incontrarla”:

Non fate rumore intorno a lei, perché è alla ricerca del silenzio.

 

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– Cosa fai di bello? – mi chiede lui dall’altro capo del telefono. Mi ha telefonato tramite Whatsapp, è a Dubai. Sempre lui, l’uomo del mistero che nessuno conosce, sì.

– Sto finendo di recensire un libro.

– Quale?

– Dieci donne, di Marcela Serrano. Un’autrice sudamericana.

– Ah, bravissima, la conosco! Fai così: scrivi questa citazione: quattro puntini…

– Veramente i punti di sospensione sono tre.

– …va bene. Tre puntini, apri le virgolette… – e conclude il suo suggerimento.

– Aspetta, lo scrivo direttamente ora che me lo dici, sono col computer alla mano. E guarda che chiudo il mio pezzo con la tua citazione, eh.

– Domani voglio vedere! Io ho amato tanto il Brasile, te l’ho già detto. E poi come un c******e ho accettato il trasferimento.

Gli uomini intelligenti parlano alle donne senza troppi giri di parole. Sanno scherzare con loro, ridere, parlare, ascoltarle, comprenderle autenticamente. Le stimano, e sono consapevoli del loro valore. Né hanno resistenza alcuna nell’ammetterlo a gran voce.

Gli uomini così sanno far provare alle donne quella sensazione dolcissima che in portoghese brasiliano si dice:   … “saudade” …

 


 

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Testi virgolettati e foto dei brani: tratti da “Dieci donne”, Marcela Serrano, Feltrinelli

Testo: Luana Lamparelli

Luana Lamparelli

 

IL MESTIERE DI SCRIVERE

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Quanto sopra riportato lo dichiara Ermanno Cavazzoni, a proposito della letteratura.
Non posso che ritrovarmi nelle sue parole e, inevitabilmente, aggiungere il mio pensiero. Che è strettamente soggettivo, altamente personale e discutibile, che è questo.
Scrivere è un mestiere così bello: bisogna avere occhi e ali, piedi per terra e testa tra le nuvole, testa sulle spalle e gambe per correre lontano. Scrivere è un mestiere che ti chiede di essere architetto e ingegnere insieme, avvocato e criminale o pregiudicato o imputato o indagato o innocente in un unico tempo; richiede cinismo e sensibilità, passione e razionalità. Potrei continuare all’infinito, ma mi fermo affermando l’unica verità – per me – assoluta: scrivere è un non-mestiere, deve essere tuo come lo sono la fame, la sete, il sonno, il respiro. Altrimenti è uno sforzo a cui vi costringete inutilmente. 

 

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L’unica donna sulla Terra

“Diario di una lettrice” è lo spazio in cui fondamentalmente voglio scrivere di me.

Di me come lettrice, ovvero lontana dal ruolo di scrittrice – o dall’identità di autrice, se preferite. Quello che leggo, quello che mi colpisce, quello che mi piace di quanto incontro o vivo. Tra musica, film, personaggi che lasciano una loro impronta in me, fotografia, pittura, architettura.

“Diario di una lettrice” è me, Luana Lamparelli, una fra tante che però ha la pretesa di dire la propria e lo fa tramite questo spazio da tutti fruibile.

Sono tornata in Puglia da diversi mesi, dopo un anno fuori.

Presa dall’impegno lavorativo che mi ha tenuta distante da tutto e più o meno tutti, la mia vita sociale qui, in questo arco di tempo, non è stata certamente intensa. Adesso però è estate, le uscite e la mondanità hanno ripreso a far parte della mia quotidianità, ed è divertente ritrovare quanto lasciato: essere tra la folla ed essere riconosciuta. Qualche anno fa, in un bar, mentre bevevo un cappuccino al bancone, ho sentito alle mie spalle: “Ma quella è la scrittrice”, “Sì, sembra lei, anche se non riesco a guardarla in faccia”. Ho sorriso e sono uscita dal bar, calcando subito gli occhiali da sole sul volto. Solo qualche settimana fa tenevo una nuova presentazione del mio secondo romanzo. Attraversando una piazza gremita di gente per giungere alla sede dell’evento, in un paese non mio, a un tratto mi sono sentita osservata. Un uomo, in piedi nella confusione, seguiva i miei passi fissandomi. Quando i nostri sguardi si sono incrociati, ha timidamente alzato una mano, non certo di avermi individuata o confusa. Ho risposto con un sorriso. Anche ieri sera, nel bel mezzo di un evento culturale, il moderatore mi ha vista seduta tra la folla: senza esitare, padrone della scena, ha alzato la mano, col labiale detto “Ciao”. Anche a lui ho risposto col sorriso, un sorriso più fermo e deciso, accompagnato dal mio Ciao labiale, senza muovere le dita. La gente lì accanto s’è voltata per guardare a chi fosse rivolto il saluto del presentatore, nessuno ha colto il mio rispondergli. Ho imparato a non compiere gesti eclatanti: è l’unico modo per preservare la riservatezza. Pensare che io, fondamentalmente, non sono nessuno, figuriamoci ai divi cosa succede!

Qualche tempo fa ho ricevuto una proposta: scrivere di una storia che sto narrando come una cantastorie a più persone, metterla nero su bianco e pubblicarla in uno spazio particolare. Mi hanno detto che è troppo bella per non essere scritta e condivisa, intrigante ed elegante a dispetto dei tempi che viviamo, e che se avessi voluto avrei potuto anche mantenere l’anonimato. Ho risposto che la scriverò, accettando l’invito, ma firmandola, e firmandola col mio nome. Perché le parole e le storie, per essere credibili e per essere credute dal pubblico, affinché si riconosca in loro, hanno bisogno della responsabilità di chi le scrive, la esigono e la pretendono.

Chi scrive deve assumersi tale dovere. Qualcuno può criticare questa mia affermazione facendo riferimento a quanti scrittori possiedono uno pseudonimo: io rispondo asserendo che esso è comunque una identità. I lettori hanno bisogno di un nome: è vero che un nome vale l’altro, ma scrivere senza nome è come far parlare un impostore. Uno scrittore inventa, racconta, reinterpreta; scrive per altri storie non sue, che appartengono a chi gliele regala perchè possa farle vivere nel mondo; narra i tempi e la sua visione dei tempi. Fondamentalmente è qualcuno che vive la nostra realtà e la restituisce in mille altri modi diversi, ma certamente non è un impostore.

Fatte queste precisazioni, bisogna sottolineare che torno a scrivere un nuovo articolo su questo mio blog dopo diversi mesi. Tre per l’esattezza.

Ricomincio parlando di me, che non è proprio una passeggiata benché sia estroversa, e raccontandovi di una cantautrice.

Non la conoscevo fino a un mese fa: fino a un sabato pomeriggio di fine giugno in cui, dalla lontana Riyadh, mi giunge tramite Whatsapp un link.

Alle volte sono le cose piccolissime ad aprirci nuovi mondi, a metterci in contatto con realtà che molto probabilmente avremmo continuato a ignorare.

Apro il link su Youtube e scopro l’artista LP. Lost on you, live session è stata la canzone che l’uomo dall’altra parte del cellulare – e da un altro continente – ha deciso di inviarmi nel bel mezzo del mio affaccendarmi. Un click sul link (lo stesso che potete fare voi sul titolo sopra riportato e su tutti quelli sottolineati che di seguito troverete) e certe parole hanno assunto un senso più intenso, seppure più evanescente. Il paradosso degli opposti.

Gli opposti. Qualcuno mi fa sorridere quando dubita della mia identità eterosessuale. Gli uomini mi regalano le migliori risate quando, rifiutati sistematicamente negli inviti a cena o per semplici caffè, indispettiti dalla mia volontà contraria alla propria, mi chiedono se abbia mai pensato di avere “una donna”, piuttosto che un uomo, e io gli rispondo che l’unica donna che desidererei è quella delle pulizie.

Ma poi ho incontrato questa donna, LP, al secolo Laura Pergolizzi. Non vi racconterò di lei perchè ci sono molte pagine che già lo fanno e rivelano la sua identità di cantautrice e firma di molti successi di altre star. Vi consiglio vivamente di ascoltarla, di cercare le sue cover di Halo e Creep, di non fermarvi, di smanettare tra Youtube e il web, di ascoltate le sue interviste.

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Per quanto mi riguarda, vi racconterò solo di come il mio sguardo si posa su di lei e di cosa coglie.

LP, con il suo ultimo singolo Lost on you uscito solo lo scorso 10 giugno, regala un coming out poetico, delicato, sensuale. Gli ultimi fotogrammi del video del singolo sono inaspettati e quasi illogici, sorprendono il pubblico con una conclusione ben diversa da quella che ci si aspettava sin dall’inizio e volutamente fatta maturare con l’alternarsi delle scene.

Incuriosita dal link che un uomo incrociato solo una volta e di cui quasi senza nemmeno sapere come mi son ritrovata il biglietto da visita tra le dita, ho cercato altri brani, mi sono documentata su questa piccoletta giunta da lontano.

LP Night like thisLp Tokyo sunrise

Quello che mi affascina di questa donna esile di statura e corporatura sono la forza, la determinazione, la vivacità mentale. Narra di sentimenti forti con l’intensità che solo le donne sanno coniugare bene con la consapevolezza dell’impossibilità.  Mi chiedo, per esempio, se Lost on you parli di un amore lontano nel tempo e nello spazio e che si ricorda con trasporto sperando che anche l’altro ricordi, o augurandosi che l’altro abbia dimenticato perchè impossibile da vivere o rivivere. O se, per esempio, non sia la classica storia per cui qualcuno pensa a qualcun altro che intanto vive felicemente un’altra storia.

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La nostalgia e il ricordo possono avere tante sfaccettature, anch’essi sono come gli elementi minuscoli e variopinti del caleidoscopio con cui giocavo da bambina. Un gioco di specchi che richiede riflessione e pazienza, attenzione e dedizione, oltre che precisione d’azione: i sentimenti e le emozioni per me sono così. Senza considerare che in qualsiasi momento puoi distogliere l’occhio da quel piccolo cerchio che ti proietta tra le facce specchiate e i colori geometrici di quel cilindro magico, tornare alla vita regolare di sempre.

Questa donna, LP, ha la capacità di raccontare quanto i sentimenti sappiano destabilizzarci, è maestra nel portare sul palco la forza che solo certe donne sanno tirar fuori nel decidere di risolvere dentro di sé la vanità di un amore non corrisposto, lottando contro sé stesse senza piangersi addosso, con azione e grinta. Non è un caso se Fighting with my self sia tra le mie preferite: adrenalina allo stato puro, è la dichiarazione che quest’artista piccoletta sa tener testa a tutti, dominando una scena di musicisti uomini che sfumano alle sue spalle. E’ delicata e forte, femminile e raffinata, ama le donne senza smettere o negare di esserlo a sua volta. Qualcuno potrà dire che in queste mie parole si celi un pregiudizio: la verità è che finora non ho conosciuto una donna omosessuale come lei. Mi affascina, mi incanta con la sua voce, le sue movenze, i suoi brani, la forza che vi traspare, l’essenza che sa incastonarvi. Tokyo sunrise è emblematico di tutto ciò, il suo video non tradisce le mie sensazioni. Il video di Lost on you, invece, ne mostra la capacità di proteggere e accogliere una donna così come un uomo farebbe, con la fermezza che francamente in molti uomini non ritrovo.

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Tornando ora alla domanda provocatoria rivoltami da alcuni uomini, al paradosso degli opposti (perchè io sono eterosessuale radicale e Laura Pergolizzi è omosessuale radicalmente affermatasi) una dichiarazione effettivamente devo farla: LP è l’unica donna sulla Terra da cui mi farei baciare e amare, nel senso sentimentale e fisico del verbo.

Con la consapevolezza che nulla è per sempre, che tutto è per ora, o per mai, o per un solo istante eterno e infinito. Cose che capitano nelle menti, e nei cuori. (Forever for now)

 

– Luana, tu rifuggi tutto quello che è banale.

– Sì, bravo, è così. Scappo letteralmente via.

 

 

 

(Foto dal web e fotogrammi ripresi dai video)

Testi: Luana Lamparelli © COPYRIGHT 2016 | TUTTI I DIRITTI RISERVATI | LUANALAMPARELLI.IT